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‘La fabbrica di cioccolato’ tra critica sociale e viaggio nell’eccesso

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Tim Burton ha da sempre costruito universi che si districano tra il gotico ed il fiabesco e La fabbrica di cioccolato (2005) è uno di questi. Tratto dal romanzo di Roald Dahl, ci troviamo catapultati dentro le mura di una fabbrica che sembra sospesa tra sogno ed incubo. All’esterno, la fotografia cupa e fredda di Philippe Rousselot restituisce una città grigia, fatta di case inclinate e cieli plumbei. Ma basta varcare i cancelli di Willy Wonka perché tutto cambi: colori sgargianti, stanze impossibili, fiumi di cioccolato che scorrono come in una fantasia infantile. È qui che il contrasto tra realtà e immaginazione diventa la chiave del film: il fuori è miseria, il dentro è un carnevale psichedelico che può stregare o distruggere. Un’ opera che vide Gabriella Pescucci candidata agli oscar per i suoi costumi.

Fin dall’inizio, una voce narrante ci avverte: Charlie è il bambino più fortunato del mondo, ma ancora non lo sa. Proprio come in Moulin Rouge! (2001), il finale viene rivelato subito. Ma non è questo il punto. Burton non vuole costruire suspense sul “chi vince”, bensì mostrarci cosa si nasconde dentro la fabbrica. Prima ancora di vedere Wonka, vediamo solo una mano che appoggia i cinque biglietti d’oro: l’oggetto del desiderio che scatenerà la follia collettiva.

Willy Wonka: un personaggio, tre volti

Willy Wonka non è mai stato solo un cioccolatiere. Nella versione di Gene Wilder del 1971 era ironico, ambiguo, quasi paterno ma pronto a punire i bambini. Johnny Depp, invece, lo porta all’estremo: un adulto mai cresciuto, fragile e inquietante, che nasconde dietro sorrisi plastici un trauma infantile. E ora c’è anche il nuovo Wonka con Timothée Chalamet, che ne mostra la giovinezza e le origini. Tre interpretazioni, tre mondi diversi, ma un unico archetipo: il genio solitario che crea un impero a partire da un’ossessione.

Depp stesso lo descriveva come qualcuno che:

“non è mai riuscito davvero a superare la sua infanzia”

e Burton aggiungeva:

“Non volevo un eccentrico qualsiasi, ma un uomo con un passato oscuro”

Non a caso, nel film lo vediamo nei flashback con il padre dentista che gli vieta qualsiasi dolce: un’infanzia fatta di privazioni che lo porta a costruire un regno di eccessi. È come se Wonka fosse: creativo, visionario, ma incapace di gestire i rapporti umani. Lo vediamo incapace di affrontare i genitori, costantemente alla ricerca di approvazione, eppure in grado di far nascere un mondo intero. È un genio o un eterno bambino arrabbiato? Forse entrambe le cose.

Cinque bambini, cinque specchi deformanti

“Solo uno scemo scambierebbe questo biglietto con una cosa comune come i soldi”

Dice il nonno di Charlie. Ed è qui che si capisce subito la logica del film: Charlie potrebbe abbandonare il suo sogno per salvare la sua famiglia, mentre per gli altri si tratta di una semplice esperienza. I bambini sono personaggi realistici, ma soprattutto simboli. Augustus Gloop è la gola che divora tutto. Verruca Salt rappresenta l’avidità di chi vuole sempre di più. Violetta Beauregarde è la competitività spinta all’estremo, incapace di fermarsi anche quando è in pericolo. Mike Teavee d’altro canto rappresenta il figlio della televisione e della tecnologia, incapace di vivere al di fuori di uno schermo.

Nella stanza della Televisione, l’omaggio a 2001: Odissea nello spazio (1968) non è casuale: simboleggia l’iniziazione di Willy Wonka ed il suo destino ossessivo suggerito dai flashback visivi. Questo suggerisce che, malgrado la sua intelligenza, Wonka sia ciecamente legato al cioccolato, quasi fosse la sua personale “scoperta” che ha dato avvio al suo impero. Mike Teavee, il più sveglio tecnologicamente, è l’unico a comprendere le sue vere capacità, che però utilizza esclusivamente per il suo impero.

Charlie invece è l’unico che incarna la virtù della gratitudine, la capacità di apprezzare anche una tavoletta di cioccolato condivisa con la famiglia.

Non è un caso che ciascuno finisca intrappolato dalla propria ossessione: Augustus risucchiato dai tubi, Violetta che si gonfia fino a esplodere, Verruca gettata tra gli scarti come la spazzatura che tratta gli altri, Mike ridotto ad un ologramma di sé stesso. Ognuno di essi in modi diversi incarnano l’essere umano che vuole sempre di più, che non si accontenta mai. Solo Charlie rimane, e non perché sia il più furbo, ma perché è l’unico che non si lascia divorare dai propri vizi. Questi bambini risultano dunque il riflesso degli adulti stessi. Gli stessi accompagnatori in qualche modo sembrano complici dei loro vizi, che ricordano i sette peccati capitali. Forse è proprio qui la vera crudeltà del film: a cadere non sono solo i bambini, ma i genitori che li hanno cresciuti in tale maniera.

Charlie e il viaggio dell’eroe “alla rovescia”

Charlie Bucket interpretato da Freddie Highmore sembra vivere il classico viaggio dell’eroe, ma non è davvero così. Non parte da una chiamata all’avventura luminosa, ma da una quotidianità grigia, fatta di fame e sacrifici. La sua “fabbrica” non è quella dei sogni, ma una casetta cadente ai margini della città, dove lui costruisce modellini con i tappi di dentifricio rovinati che il padre porta a casa. È qui che Charlie dimostra di essere un sognatore diverso: immagina un impero del cioccolato partendo dagli scarti, non dalla ricchezza. Quando compaiono i famosi cinque biglietti d’oro, sembra l’inizio di una fiaba classica, ma in realtà è una grande illusione collettiva. È marketing o destino? È una promessa di felicità o una trappola dorata?

I nonni diventano i suoi mentori, ognuno con un ruolo diverso. Una nonna gli dice:

“Tu hai la stessa probabilità di chiunque altro”

Ma un altro nonno smonta subito la magia:

“Baggianate, lo troveranno il biglietto d’oro quelli che possono comprare tavolette di cioccolato ogni giorno. Il nostro Charlie ne riceve una all’anno. Non ha possibilità”

Non è pessimismo, ma realismo: il mondo non è giusto, e Charlie lo deve imparare. Il nonno Joe, ex lavoratore della fabbrica, invece rappresenta la complicità e il legame con Wonka, quasi un ponte tra l’infanzia di Charlie e l’universo industriale che sogna.

La fabbrica come specchio del capitalismo

La fabbrica di Willy Wonka è un parco giochi, un sogno colorato, ma anche un incubo industriale. Non è forse l’immagine stessa del capitalismo? Un sistema che promette felicità infinita, ma che elimina senza pietà chi non rispetta le sue regole. I biglietti d’oro sono l’illusione della lotteria: milioni sognano, solo cinque ottengono l’accesso, e solo uno vince davvero. È la stessa logica della società dei consumi, che vende speranze.

Eppure Burton non si limita a mostrare la crudeltà, ci regala anche momenti di pura meraviglia: le stanze impossibili, i fiumi di cioccolato, la macchina dei dolciumi che sembra uscita da un sogno psichedelico. Ogni spazio è un piccolo mondo con una regola precisa, un mix tra fantasia infantile e disciplina ferrea. Ed è qui che entrano in gioco gli Umpa-Lumpa: apparentemente buffi e comici, ma in realtà simbolo del lavoro seriale e alienante. Burton li affida tutti allo stesso attore, Deep Roy, replicato digitalmente centinaia di volte: un effetto che diverte, ma che inquieta. Non è forse un modo per dirci che dietro ogni industria ci sono lavoratori invisibili, intercambiabili, senza volto?

Gli Umpa-Lumpa, sembrano quasi dei robot, pronti alla canzone, alla situazione, i cosiddetti problem solver della nostra società. Si prestano addirittura come cavie. La stessa cosa vale anche per gli altri lavoratori come gli scoiattoli. La realizzazione della scena non è frutto di un effetto speciale ma estremamente veritiera. Furono addestrati 40 roditori e per girare le poche scene ci vollero ben 10 settimane.

Dato che la Fabbrica elimina sistematicamente i bambini in base ai loro vizi, possiamo davvero considerare Willy Wonka un genio creativo o è, in realtà, un cinico selezionatore che usa il sogno come strumento di crudeltà?

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