Il cinema d’inchiesta, quello vero, non ti dà risposte; ti lascia solo con domande sporche e la nausea. Seeds from Kivu (o Semillas de Kivu), diretto con gelida lucidità da Néstor López e Carlos Valle, non fa eccezione. Non è un film per i salotti bene o per le premiazioni dove si applaude la sensibilità. È una martellata sulla tempia per chiunque creda che la tragedia si fermi ai titoli di testa. Siamo in Congo, Kivu. La regione che fornisce i minerali per far sognare l’Occidente è, per le sue donne, il peggiore degli incubi. Un luogo dove la dignità non si perde, viene smantellata pezzo dopo pezzo, come una vecchia carcassa arrugginita. Nonostante la sua cruda brutalità, o forse proprio per quella, è un’opera che finisce sui circuiti che contano, come il PerSo Film Festival, dove viene proiettata non per essere celebrata, ma per essere usata come arma di disturbo contro l’ipocrisia.
La merce di scambio: corpi e coltan
Il documentario imposta il tiro immediatamente: la violenza sessuale non è un effetto collaterale della guerra. È il metodo. È l’arma più economica ed efficace per disintegrare le comunità, scacciare la gente dai territori e controllare le miniere d’oro e di coltan. I corpi delle donne non sono vittime, ma terreni contesi. I registi non cadono nella retorica del mondo bello e puro distrutto dal male. Ci mostrano la nuda, terrificante realtà: queste donne, arrivate all’ospedale Panzi di Denis Mukwege, sono la prova vivente che l’umanità è un progetto fallito. Le ferite fisiche vengono riparate da mani chirurgiche; il danno morale, quello che ti succhia via l’anima, è l’oggetto di questa analisi. La cinepresa si fa spietata, ma mai morbosa. Non indugia sul sangue, ma sul vuoto che il sangue ha lasciato negli occhi.

L’ultima trincea: il peso della maternità
Il cuore marcio del corto è il dilemma che si svolge nelle sessioni di terapia: accettare i bambini nati dallo stupro di gruppo. Come si vive con un figlio che non è frutto dell’amore, ma di una violazione programmatica? È qui che la narrazione si fa esistenziale, uscendo dal reportage per entrare nella tragedia greca. Per queste donne, il bambino è un promemoria costante, l’impronta fisica e vivente dell’aggressore. Ma il documentario, con cinismo quasi calvinista, suggerisce un ribaltamento: l’atto di non uccidere quella discendenza, di non crollare sotto quel peso, è l’ultimo, disperato scatto di volontà. La maternità non è una gioia, è una condanna accettata come resistenza. È l’unico modo per dire a chi le ha violentate: “Mi hai distrutto, ma non mi hai spento. Questa vita, per quanto segnata, è mia.”
La sporcizia che ti resta addosso
Seeds from Kivu non è un documentario che fa appello alla carità. È una condanna a morte per la nostra indifferenza globale. Non c’è lieto fine. C’è la semplice, brutale constatazione che l’inferno non è un posto, è una condizione. Queste donne sono sopravvissute. Stanno provando a tornare in una società che le ha già esiliate. Stanno lottando. E tu, spettatore, sei lì a guardare. López e Valle non danno la possibilità di consolarti con la loro resilienza. Ti costringono a fare i conti con la tua complicità silenziosa. Ventinove minuti di puro, ininterrotto disagio. E quando lo schermo diventa nero, il rumore che senti non è il silenzio; è il ticchettio della bomba a orologeria sociale che abbiamo lasciato armare in Congo.