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Marco Bellocchio, il cinema politico cambia ma non tramonta
Il regista ha parlato con i cronisti internazionali al Busan International Film Festival
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6 ore agoon
Sessant’anni di carriera cinematografica, un cinema distintivo che ha segnato non solo la tradizione italiana, ma l’impegno politico e civile nella settima arte: Marco Bellocchio è stato celebrato in lungo e in largo, ma con ancora più incisività nell’ultimo ventennio.
Dalla retrospettiva completa del British Film Institute, al Leone d’Oro alla Carriera (2011), seguito dal medesimo riconoscimento a Locarno (2015) e Cannes (2021): queste sono alcune delle numerose conferme al suo cinema, apprezzato dai cinefili e dal pubblico.
Arriva quindi come un ulteriore abbraccio il contatto con le platee asiatiche del Busan International Film Festival (BIFF, Corea del Sud): uno tra i più importanti festival orientali, che in occasione di una importantissima 30esima edizione ha deciso di celebrare a sua volta la carriera del maestro con una retrospettiva e con il BIFF Cinema Master Honorary Award.
Marco Bellocchio ritira il BIFF Cinema Master Honorary Award – foto credit ©BIFF ©부산국제영화제
Otto sono i titoli presentati, valevoli per ripercorrere una carriera costruita da una dedizione solida alla ricerca, all’impegno civile, l’attivismo, e l’osservazione attenta dei moti sociali. Tre sono i film che illustrano la prima parte della carriera, e quindi la formazione della visione fortemente influenzata dall’attivismo politico e dalle teorie dello psichiatra e psicoterapeuta Massimo Fagioli: si è iniziato con I pugni in tasca (1965), il lungometraggio di esordio, seguito poi da Salto nel vuoto (1980) con Michel Piccoli e Anouk Aimee; poi l’adattamento del romanzo di Raymond Radiguet, Diavolo in corpo (1986).
Dagli anni Duemila arriva la più nutrita selezione: Buongiorno, notte del 2003, una scelta obbligata dal momento che il festival ha voluto anche Esterno notte (2022), per poter chiudere il cerchio sul personaggio di Aldo Moro. Insieme a questi due titoli, i cinema di Busan hanno ospitato il Mussolini di Filippo Timi nel film Vincere (2009); il documentario molto personale Marx può aspettare (2021); e in ultimo l’anteprima, già proiettata a Venezia, dei primi due episodi di Portobello (2025), l’ultima creatura nonché seconda esperienza seriale di Bellocchio dopo il già citato Esterno notte. Portobello, di prossima uscita, è dedicato al personaggio di Enzo Tortora, al centro di un celeberrimo caso di errore giudiziario che ha segnato profondamente la sua vita.
La retrospettiva offre la possibilità di esplorare tutti i generi con cui Marco Bellocchio ha avuto modo di confrontarsi, e la sua attitudine ad entrare in confidenza con personaggi critici e criticati: il suo sguardo rende merito alla complessità umana e psicologica, alla forza con cui si confrontano con le crisi e, come lui stesso dichiarerà, al loro costante movimento.
Il BIFF ha voluto anche sedere il regista in cattedra, ospitando una Masterclass dedicata a cinefili e studenti: i ragazzi, entusiasti, lo hanno seguito in strada per gli autografi. Non c’è barriera linguistica né culturale quando il cinema muove corde universali.
In occasione della visita del maestro al festival coreano, Taxidrivers ha presenziato all’intervista con i giornalisti internazionali per poter raccontare un po’ di più della solidità di questo regista ottuagenario e della sua inesauribile energia creativa.
Marco Bellocchio presenzia all’intervista di gruppo al Busan International Film Festival – foto credit ©BIFF ©부산국제영화제
Marco Bellocchio e l’Asia, per cominciare
Grazie mille maestro Bellocchio per essere venuto qui, questa è la prima volta che partecipa al Busan International Film Festival. Come si sente?
Grazie, è la prima volta che sono qui. Questa retrospettiva è molto ricca. Ho visto già in alcuni incontri un’attenzione e un approfondimento verso il mio lavoro, che mi ha stupito e mi ha fatto molto piacere.
In relazione alla sua esperienza, come potrebbe definire l’esperienza con l’Asia?
Proprio nel profondo dalla provincia italiana, io feci questo secondo film, La Cina è vicina, ma io di Cina non sapevo assolutamente nulla. Comunque, mi interessavano anche quei certi gruppi maoisti, che appunto acclamavano Mao Tse-tung.
Ma per me l’Asia è affascinante come sconosciuta. L’esperienza, l’età, mi induce alla prudenza: quando andrò via tra tre giorni, cosa avrò capito della Corea? Nulla o quasi. Però è affascinante essere qui, sentire i movimenti, i comportamenti, e sentire anche, rispetto ai film che ho fatto, le reazioni.
Per esempio mi ha colpito quanto il critico moderatore della Master Class di ieri [Jung Sung-il, N.d.A.] avesse approfondito certi temi – non voglio sembrare ruffiano verso nessuno – ma che non avevo mai sentito formulati da tanti giornalisti critici italiani o europei. Come lui avesse letto e conosciuto la teoria Fagioliana [Massimo Fagioli, psichiatra, n.d.r.], esprimendo alcune cose, che sono state molto importanti nella mia carriera: ecco, mi ha stupito.
Così come anche alcune domande che sono state fatti in relazione a I pugni in tasca, film di 60 anni fa, in cui effettivamente c’è un palpito, c’è ancora qualcosa che convince.
Io sono contento di essere venuto per la prima volta in Corea, nessuno è eterno, e abbiamo ancora tante cose da fare, quindi speriamo di poterci ritornare.
‘I pugni in tasca’ di Marco Bellocchio, 1965
Il passato
Quale è la sua visione della società e come è cambiata rispetto a 60 anni fa?
Sono cambiato io come è cambiato il mondo, tutti noi cambiamo. Sono successe nel mondo delle cose terribilmente nuove, e quindi lo spirito de I pugni in tasca, quindi lo spirito di ribellione, lo spirito che anticipava la ribellione della grande contestazione mondiale del 68, adesso è completamente scomparso. È scomparso anche il sogno, l’utopia politica del voler cambiare il mondo. Sono tutte cose che sono scomparse.
Questa non significa che in me ci sia la rassegnazione ad una sconfitta, quanto piuttosto la ricerca di un cambiamento che non passa attraverso una contestazione violenta, che non passa attraverso l’uccisione della madre o del fratello, che non passa attraverso l’uccisione dell’altro.
In fondo il messaggio radicale italiano, o anche quasi Gandhiano, della non violenza, di cercare di combattere senza uccidere, è il messaggio che mi interessa di più. Purtroppo è un messaggio che in questo momento non è vincente, perché attualmente nel mondo prevale la legge del più forte, di chi è più armato, e quindi vince uccidendo l’avversario.
Ci può raccontare del suo rapporto con Ennio Morricone, che ha scritto le musiche di I pugni in tasca?
Il rapporto con Ennio Morricone è sempre stato ottimo fino alla fine. È nato per caso.
Al tempo di I pugni in tasca, io lo conoscevo perché lui aveva già fatto tanti film importanti, famosi, pensiamo ai film di Sergio Leone, ma anche a tanti altri.
Ora, qualcuno che lo conosceva direttamente, gli ha chiesto di vedere il film, in moviola, ovvero vedere il film che era ancora in montaggio. Lui lo ha guardato, ma al tempo le tecniche erano più rudimentali, meno sofisticate di oggi. Perciò lo ha visto in moviola, muto, solo immagine. Ma ne è rimasto molto colpito e mi ha detto che era disposto a fare la musica de I pugni in tasca. Io sono stato ovviamente contento e gli ho lasciato, ovviamente, la più totale libertà. Lui ha lavorato su dei temi e sulla elaborazione. […] La sua musica era perfetta, era giusta e arricchiva molto il film.
Poi insieme abbiamo fatto un altro film che si chiama La Cina è vicina, che poi per dei motivi molto più personali, nel senso che io avevo bisogno di musicisti con una disponibilità maggiore, la nostra collaborazione si è interrotta. Ma siamo rimasti sempre molto amici.
Allora io ero molto giovane, e ho cominciato a lavorare con un altro compositore che si chiamava Nicola Piovani. È andata così.
Per quale ragione Esterno Notte è diventata una serie?
Il racconto naturalmente si sviluppava su vari episodi: nel senso che nasce dal sequestro Moro, questo personaggio scompare e noi vediamo negli episodi successivi una serie di protagonisti di questa storia all’esterno. Buongiorno Notte, era tutto ambientato dentro la prigione di Aldo Moro; ma i vari personaggi di Esterno Notte, il ministro dell’interno, Francesco Cossiga, il papa Paolo VI, la moglie e poi anche i terroristi, sono all’esterno di quella tragedia che sta avvenendo in Italia.
Nel sesto episodio ritorniamo nella prigione di Aldo Moro e vediamo la sua morte, la sua fine. Questo procedere per episodi è uscito abbastanza naturalmente, perché io sentivo che raccontare questo esterno della vicenda Moro avesse bisogno di questo tempo. Non bastava comprimerlo nel tempo di un film.
Qual è il valore della famiglia nei suoi film?
Nel passaggio del tempo le idee sono cambiate… Certamente la vita famigliare, l’educazione cattolica, le scuole, tutto ciò che io ho vissuto dentro la mia famiglia, mi ha fortemente condizionato. E quindi la politica e la famiglia sono due temi che spesso si sono incrociati, si sono mescolati, si sono fusi. Non a caso in Esterno Notte c’è un episodio dedicato alla famiglia di Aldo Moro, alla moglie e ai figli di Aldo Moro.
Un’artista richiama le cose della sua vita, intorno a cui nascono le immagini, non è che vengono dal cielo, ma vengono dalle sue esperienze: questa è la mia vita.
‘Portobello’ di Marco Bellocchio – Fabrizio Gifuni è Enzo Tortora
Il presente
Nell’affrontare Portobello, si è sentito più libero rispetto alla lavorazione in tempi più limitati di un film?
Riguardo Portobello, questa idea, questo progetto è nato un po’ per caso. Mi era stato mandato da Francesca Scopelliti, l’ultima compagna di Enzo Tortora, un libro intitolato Lettere alla Francesca, che erano praticamente le lettere che, dalla prigionia, Enzo Tortora mandava alla sua compagna. E questo mi aveva molto emozionato, mi aveva molto ispirato, e allora ho proposto di fare un film, una serie, sulla vicenda giudiziaria, incredibilmente anche tragica, di Enzo Tortora. Un uomo assolutamente innocente, che un giorno viene arrestato, che viene accusato di essere un trafficante di droga, di essere un camorrista, e su delle testimonianze di pentiti, che tutti insieme si erano organizzati per accusarlo.
Lui viene prima condannato, poi, per fortuna, assoluto. Ma questa ingiustizia lo ha logorato al suo interno. E infatti dopo l’assoluzione, lui riprenderà il suo lavoro, ma morirà un anno dopo.
Questa è una incredibile vicenda italiana, adesso vediamo se potrà interessare. Anche a [Mostra del cinema di, n.d.r.] Venezia sono stati presentati i primi due episodi e hanno suscitato un grande interesse tra gli Europei.
È ancora importante al giorno d’oggi fare film con contenuti socio-politici?
Il cinema politico che c’era una volta offriva un tema politico combinato anche con l’idea politica. Denunciava politicamente qualcosa di non giusto, c’era questa convinzione. […] Non che adesso non si possa fare, ma certamente a me interessa parlare di soggetti, mi interessa il personaggio.
Ho voluto raccontare Tortora non per sbandierare il tema dell’ingiustizia: mi interessava raccontare questo personaggio, la sua complessità. Lui non è un eroe all’inizio, è quasi qualcuno che diventa un eroe suo malgrado, diventa un eroe perché è costretto a cambiare personaggio. Però è un uomo assolutamente innocente rispetto alle accuse che lo avevano portato al carcere. E quindi raccontare lui, il suo rapporto con gli avvocati, con i suoi familiari, insomma… Chiaramente il messaggio politico, non è prima ma dopo, durante, parallelo.
Sergio Marchionne verrà raccontato da marco Bellocchio in ‘Falcon’
Il futuro
Ci può anticipare qualcosa sul suo prossimo progetto?
Per quel che riguarda il futuro, ancora una volta stiamo su un discorso personale ma anche politico, su un personaggio italiano e americano che si chiamava Sergio Marchionne, che è stato per molti anni il CEO di FIAT, ed quando operò sulla più grande azienda italiana, che si trovava in una situazione veramente difficile, la salvò in qualche modo. È un esempio italiano in cui l’aspetto privato e l’aspetto politico si combinano insieme. Quindi non c’è intenzione di realizzare un documentario storico, ma raccontare, anche con l’immaginazione, questa vicenda in quegli anni, che sono anni recenti, questo personaggio e quindi l’Italia. Questo è un progetto che è ancora molto complicato da fare, ma su cui ho interesse a studiare e lavorare.
Qual è il suo rapporto con i deboli di cui racconta?
Non sempre [si tratta di deboli, N.d.A.], sono personaggi complessi. Cioè il protagonista de I pugni in tasca non è un debole, è uno forte però fragile. Lo stesso Enzo Tortora è uno che aveva un suo carattere: una volta che cade in disgrazia, una volta che viene arrestato, reagisce con una certa forza, reagisce con una certa determinazione.
Lo stesso Aldo Moro. Aldo Moro resiste nella sua prigionia e cerca di salvare la propria vita, ma anche di salvare le proprie idee, di affermarle; in questo senso è poi diventato, dopo la sua morte, un personaggio di riferimento nella politica italiana straordinario. Quindi sono personaggi forti e fragili, ma non li definirei deboli, non sono deboli.
E comunque che si muovono.
Quello che a me interessa nei racconti e nelle storie sono i movimenti, non personaggi che restano tali e quali dall’inizio e alla fine. I loro movimenti, le loro reazioni, la loro resistenza a situazioni anche drammatiche. Questo mi piace.
E questo in fondo è un po’ quello che ho sempre cercato anche di vivere nella mia vita.
E augurerei a tutti, di non subire, di non arrendersi.