PANORAMA
‘Tutto quello che resta di te’ – Il cinema come atto di scelta
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1 settimana agoon
A volte un film è più di un film. A volte il cinema diventa veicolo di un sentire comune, può riattivare la memoria, riaprire la storia e perfino spingerci a ridefinire cosa è giusto e cosa è sbagliato. In questi casi, non si parla di tecnica registica, sceneggiatura o fotografia. Si parla di qualcosa di più profondo: della capacità del cinema di restituire dignità, memoria e consapevolezza.
La formazione dello sguardo
Nella mia storia personale di spettatrice, i film sull’Olocausto hanno sempre avuto un ruolo centrale. In modo quasi macabro – lo ammetto – ne ero attratta. È sempre stato per me un tema potentissimo: guardare l’incomprensibile, l’inimmaginabile, il dolore assoluto. Davanti alla televisione, alimentavo sadicamente struggimento e inquietudine.
Forse era un tentativo disperato di capire. O forse il sintomo di un profondo, seppur immotivato, senso di colpa, che mi spingeva a pretendere di essere consapevole, sensibile, informata. Di fronte a quelle immagini – i corpi smagriti, i volti stanchi, le teste rasate – mi sembrava di assolvere un dovere: sapere.
Con gli occhi increduli di una bambina forse fin troppo empatica, quelle immagini diventavano una prova da affrontare, una soglia da non oltrepassare con leggerezza. Crescendo, con la consapevolezza di essere una privilegiata, di avere alle spalle una storia familiare non marchiata dal terrore dello sterminio – cosa tutt’altro che scontata – sentivo il bisogno di sapere, di guardare. Di non distogliere lo sguardo.
E così guardavo, instancabilmente: Spielberg, Benigni e ogni altro cantore della Shoah. Anche quando non si trattava di storie vere, bastava che si attingesse a quell’immaginario perché io potessi sentirmi parte di una memoria collettiva. Il cinema mi permetteva di conoscere e di prendere una posizione, anche se tardiva, anche se teorica.
Il cinema come scelta morale
Guardare quei film era per me un modo, senz’altro semplice, di scegliere. Ma mi ero illusa che bastasse prendere una posizione, che bastasse schierarsi. Pensavo, ingenuamente, che fosse tutto lì: stare dalla parte giusta, dirlo a voce alta, riconoscerlo come valore.
Ma ora mi rendo conto che non basta sedersi accanto a coloro che sono contro la brutalità, contro i massacri, contro la discriminazione, la sofferenza e la fame nel mondo. Non è un gesto unico, risolutivo, che si compie una volta per tutte. È una pratica continua, quotidiana, spesso scomoda.
Per molto tempo ho pensato che se fossi nata ottant’anni prima sarei stata una “persona giusta”. Oggi so che quella convinzione era comoda. E, soprattutto, illusoria.
Quando la distanza crolla
Quando sono andata a vedere Tutto quello che resta di te – un film che racconta di deportazioni, genocidio, occupazione, sfratti, lavori forzati e campi di prigionia – qualcosa si è rotto. Non mi era mai capitato di piangere davanti a un film sulla Shoah (perdonerete i continui paralleli ma non posso farne a meno: è il mio modo di leggere il mondo). Forse perché ero protetta dalla distanza storica, dall’illusione che fosse tutto risolto, conosciuto, metabolizzato.
Invece, questa volta ho pianto. Perché niente è andato come speravo. Perché quella grande certezza è crollata: la giustizia che davo per scontata non è mai esistita. E io non mi sono mai davvero battuta per far valere quella mia “posizione giusta”, convinta che non ce ne fosse bisogno.
Così, dentro una sala cinematografica sicura ed eccessivamente climatizzata a Roma, il cinema mi ha ricordato che non basta sapere. Che bisogna lottare.
Un film necessario
Mi capita spesso di scrivere nelle mie bozze: “un film necessario”. E forse, nel loro tentativo di raccontare, ogni film lo è davvero. Tuttavia, a volte quella frase la cancello. Ma stavolta no.
Tutto quello che resta di te è un film necessario.
Diretto da Cherien Dabis, regista palestinese-americana, il film arriverà nelle sale italiane il 18 settembre.
Al centro della storia c’è Noor (Muhammad Abed Elrahman), un giovane palestinese che vive nel campo rifugiati di Nablus, raccontato attraverso lo sguardo di sua madre Hanan, interpretata dalla stessa Dabis.
È un film che si discosta dalle recenti narrazioni documentaristiche sul conflitto israelo-palestinese. Dabis sceglie la finzione, la narrazione romanzata. Non per nascondere la verità, ma per darle un volto riconoscibile.
Il conflitto come dato di fatto
In Tutto quello che resta di te, il conflitto non è più da dimostrare. È un dato di fatto. Non è più un tema da festival di nicchia o cineforum impegnati. I ruoli sono chiari e scanditi. I soldati israeliani sembrano proprio riesumare la parte di quelli cattivi cattivi che urlano, che avevamo imparato a conoscere in altri contesti, in altri tempi, ma che qui ritornano – più reali che mai.
Nel suo discostarsi dal genere documentario, il film di Dabis si avvicina a opere come La vita è bella o Schindler’s List. Non tanto per la qualità cinematografica, quanto per il tipo di operazione che mette in atto: trasformare una tragedia in memoria collettiva, che non può più essere ignorata.
La responsabilità dello spettatore
Un’opera come questa pone una domanda fondamentale: cosa significa conoscere un dolore e portarne dentro al cuore la responsabilità? È ancora possibile ignorare? Fingere di non sapere?
Il cinema, in questo caso, non consente più neutralità. Dabis impone una verità scomoda ma incontestabile: non c’è più tempo per la sola denuncia. Serve memoria, consapevolezza e, soprattutto, presa di posizione e azione.
Il cinema è lo specchio del mondo
Qualche giorno fa, nella chat WhatsApp dei redattori di TaxiDrivers si è aperta una lunga discussione su come comportarsi nei confronti di MUBI. Alcuni sostenevano la necessità di interrompere ogni riferimento alla piattaforma, altri ne riconoscevano comunque il ruolo fondamentale nella diffusione del cinema indipendente.
Io ero per una presa di posizione più netta. Per me si trattava del male minore, della scelta giusta in questo momento. Altri redattori hanno fatto notare quanto uno schieramento su larga scala di questo tipo potesse essere penalizzante per i lavoratori del cinema. Per loro, il tema centrale dovevano restare i film, punto. Quella discussione mi ha fatto riflettere ancora una volta su ciò che facciamo: scrivere di cinema significa guardare e raccontare il mondo e scegliere da che parte stare.
Una chiamata alla responsabilità
Tutto quello che resta di te è un film necessario. Lo è non solo per quello che mostra, ma per ciò che chiede a chi guarda. Chiede consapevolezza, empatia, responsabilità. Ricorda che non basta aver preso una posizione teorica, magari comoda, magari in un passato che non ci riguarda più. Serve rinnovarla ogni giorno, nei fatti, nelle parole, anche attraverso l’arte.
In un mondo dove le immagini scorrono veloci e le tragedie si consumano in pochi secondi di scroll, il cinema torna a essere ciò che è sempre stato: uno specchio, un grido, un atto di resistenza.
Ma non volevo scrivere un’ode al cinema. O forse sì. Forse oggi, mentre la realtà ci mostra il suo volto più duro, il cinema resta uno dei pochi strumenti in grado di scuotere le coscienze, di renderci di nuovo responsabili. Di permetterci di vedere. E di scegliere, ancora una volta.