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‘Kill Bill Vol. 1’ – La vendetta è un piatto che va servito freddo

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Lei ucciderà Bill?

Così recita lo slogan promozionale del 2003 di uno dei grandi cult tarantiniani, dove combattimento, sangue e violenza si prendono per mano con un solo obiettivo, uccidere Bill.

Siamo nel 1994, sul set di Pulp Fiction quando dall’incontro tra il Maestro del Cult e la giovane Uma Thurman nasce l’idea di una sposa imbrattata di sangue. Per celebrare i trent’anni dell’attrice, nel 2000, Quentin Tarantino, con il sorriso sornione di chi ha passato l’adolescenza a divorare VHS di kung-fu hongkonghese, exploitation anni ’70 e spaghetti western, prende tutto ciò che ama, lo frulla, e lo serve in un piatto fumante di vendetta, un piatto che — ricordiamo — va servito freddo.
Kill Bill è cinema che si muove come una spada: colpisce con precisione, ma gode dell’attesa prima di farlo.

Kill Bill: la traiettoria di una lista

La storia è lineare, quasi un videogioco. A Pasadena, in California, La Sposa, o Beatrix Kiddo, interpretata dalla musa e complice artistica Uma Thurman, si risveglia dal coma con un obiettivo preciso: fare fuori, uno per uno, i membri della Deadly Viper Assassination Squad — setta di sicari e killer professionisti di cui la stessa Beatrix fa parte — che l’hanno ridotta in fin di vita il giorno delle sue nozze.
Ogni capitolo è una boss fight, ognuno con un’estetica, un ritmo e un’energia propria, come livelli di un picchiaduro arcade.
Il racconto devia le leggi cronologiche e viaggia tra continui flashback, per poi completarsi con il secondo volume dell’avventura omicida — decisamente più western e meno orientale — quando finalmente la Sposa si troverà a fronteggiare, in un elegante faccia a faccia, il velenoso e persuasivo Bill.

Una danza mortale tra Hong Kong e Giappone

Così da Black Mamba che era (nome in codice di Beatrix Kiddo all’interno della Squad), dopo aver vestito i panni di una sposa redenta, Uma Thurman si infila un nuovo iconico costume da supereroe per affrontare i Crazy 88 che difendono O-Ren Ishii, ormai a capo della Yakuza. Con asics e tuta gialla alla Bruce Lee, Tarantino valica i confini dell’omaggio arrivando a servirsene come manifesto visivo: un chiaro segnale d’allarme per lo spettatore che avvisa, “qualcuno qui sta per perdere degli arti”.

E in effetti, più di un qualcuno perde più di un arto. La coreografia, firmata dal leggendario Yuen Woo-ping (lo stesso di The Matrix),  assume i tratti di una danza mortale, teatrale, studiata nei tempi e negli spazi come fosse un musical in cui a garantire l’alto ritmo della tensione ci sono fendenti e katane. C’è l’eco degli wuxia hongkonghesi, dove il gesto prima colpisce per eleganza e poi per impatto.

Tarantino si diverte anche a cambiare registro visivo: uno dei momenti più memorabili ed emotivamente coinvolgenti, è il racconto delle origini di O-Ren Ishii (Lucy Liu), narrato interamente in animazione giapponese, sotto la regia di Mahiro Maeda e Katsuto Nakazawa. Una scelta spiazzante e geniale, capace di trasformare un trauma infantile in un’opera di violenza estetizzata, dove ogni frame è curato come un’illustrazione. È un ponte diretto con l’anime anni ’80-’90, ma filtrato da un occhio occidentale che ne enfatizza il lirismo e la brutalità.

Musiche che pulsano come sangue

Kill Bill  costruisce una coreografia sonora e visiva dove ogni brano musicale spezza l’aria come stoccate di katane e ogni pausa è un respiro trattenuto prima dell’affondo decisivo.

La dichiarazione di una vendetta

Nel prologo di Kill Bill la canzone Bang Bang (My Baby Shot Me Down), accompagna i titoli di testa subito dopo la brutale sequenza in cui Beatrix Kiddo viene colpita da Bill il giorno del suo matrimonio. La voce malinconica di Nancy Sinatra, con ritmo lento e sospeso, agisce come una dichiarazione silenziosa di vendetta, il respiro controllato di chi ha già deciso cosa fare. In questo senso, la canzone introduce la calma glaciale di Beatrix, un personaggio che non agisce per impulso cieco, ma con lucida determinazione nei confronti di un obiettivo ben preciso, dopo un’attesa di quattro anni.

“Sono la pietà, la compassione e il perdono che mi mancano. Non la razionalità.”

dice Beatrix Kiddo alla sua seconda vittima, Vernita Green, Testa di Rame (Vivica A. Fox). Una confessione che chiarisce come la sua missione sia priva di esitazioni morali, ma radicata in una mente fredda e strategica. La musica e il personaggio si fondono così in una promessa sussurrata: la vendetta arriverà, qualunque cosa sia intercorsa negli ultimi quattro anni, inevitabile e calcolata.

Acciaio giapponese

Il capitolo dedicato a Hattori Hanzo in Kill Bill segna una pausa dal ritmo frenetico della vendetta per entrare in un territorio quasi cerimoniale. Dopo la scia di sangue e azione che ha portato fin lì, la storia rallenta e si carica di un’aura di rispetto, silenzio e tradizione. Hanzo, inizialmente presentato come un oste eccentrico e bonario, rivela gradualmente la sua vera natura: quella di un maestro leggendario, ritiratosi dal mondo della violenza ma ancora custode di un’arte sacra. L’incontro con Beatrix Kiddo si trasforma in un rituale di investitura, scandito da sguardi ben calibrati e dal suono ipnotico del flauto di The Lonely Shepherd. In questa cornice di sacralità, la consegna della spada diventa un atto solenne, carico di significati simbolici, che suggella l’alleanza tra maestro e guerriera e imprime un sigillo rituale alla sua missione di vendetta.

Beatrix Kiddo affila le lame

Il massacro in Kill Bill è in realtà preannunciato da una serie di segnali sonori che attraversano il film. Uno dei più iconici è il Whistle della finta infermiera Elle Driver, California Mountain Snake nella Squad (Daryl Hannah), mentre avanza lungo il corridoio dell’ospedale: una melodia semplice e spensierata, fischiata con glaciale leggerezza, che diventa inquietante proprio per il contrasto con l’omicidio (quasi) imminente. È il tipo di momento in cui il tempo si sospende, come nei migliori film wuxia, per permettere alla tensione di saturare l’aria e convogliarla nella violenza a cui Tarantino ci ha da tempo abituati.

Poi, nella corsa verso la resa dei conti, Battle Without Honor Or Humanity di Tomoyasu Hotei trasforma un tragitto in moto in un ingresso trionfale da rockstar. Il mood cambia bruscamente con Woo-Hoo delle giapponesi The 5,6,7,8’s, un surf rock anni ’60 che alleggerisce l’atmosfera come quiete prima della tempesta. Ma il segnale di fuoco arriva con Ironside, tema-sirena che avverte lo spettatore: il tempo dell’attesa è finito.

La sinfonia della mattanza

La carneficina alla taverna rappresenta il clou dell’azione di tutta la pellicola. Una sinfonia di lame, ritmo e citazioni, orchestrata con la precisione maniacale di un direttore che conosce a memoria le partiture del cinema di Hong Kong e dell’exploitation anni ’70.

Il cuore sonoro del massacro è il mash-up Crane/White Lightning. La parte di RZA (Crane) è puro minimalismo orientaleggiante: sintetizzatori sottili, percussioni essenziali, pause caricate come molle pronte a scattare. È il momento in cui la Sposa, finalmente in tuta gialla, circondata dai Crazy 88 che difendono O-Ren Ishii, si misura con lo spazio, calma e letale come un monaco guerriero. Poi entra White Lightning di Charles Bernstein, con una chitarra twang sporca, figlia del southern rock e del poliziesco anni ’70. In un attimo, l’equilibrio zen si dissolve e Beatrix diventa una furia vendicatrice, una Tisifone delle Erinni greche, un tornado di sangue unito all’acciaio di Hattori Hanzo.

Il duello finale

Nel duello finale tra Beatrix Kiddo e O-Ren Ishii, Tarantino sovverte l’aspettativa di un accompagnamento epico scegliendo Don’t Let Me Be Misunderstood nella versione flamenco-disco dei Santa Esmeralda. Il brano dal ritmo ipnotico trasforma la lotta in una danza rituale, avvicinandola più a un passo a due che a un semplice scontro di katane. È un ponte sonoro tra l’estetica dei drammi storici giapponesi jidai-geki e l’esuberanza pop anni ’70, una contaminazione che smonta i confini di genere. Quando la musica si interrompe e restano solo i rumori ovattati della neve e del respiro, l’influenza del cinema samurai e di Hong Kong si fa sentire: la sospensione prima del colpo finale è il silenzio che urla assordante e mette fine, solo per ora, alla missione di Beatrix.

Kill Bill: una fusione pulp di stili e influenze

Questa ibridazione di influenze musicali e visive è la spina dorsale della sequenza di violenze in Kill Bill. Il lavoro di RZA, che fonde hip-hop, soul, rock psichedelico, colonne sonore anni ’60-’70 e sonorità orientali, riflette il montaggio culturale di Tarantino: un mosaico in cui convivono Chang Cheh e Sergio Leone, Bruce Lee ed Ennio Morricone. È un’operazione che prende la teatralità codificata del cinema di Hong Kong e la reinventa attraverso la lente pulp americana, fino a trasformare la lotta in un’opera musicale.

Quando, tra luci al neon, schizzi di rosso e improvvisi tagli in bianco e nero, la Sposa decapita O-Ren Ishii, assistiamo a una jam session di cinema globale, in cui Hong Kong e Hollywood ballano insieme sotto il segno di Tarantino. La musica scardina il ruolo di mera accompagnatrice e diventa il battito cardiaco della vendetta.

Il risultato è un film che sembra un collage impazzito, eppure calibrato al millimetro. Tarantino non si limita a omaggiare: ruba, mescola, reinventa, come un ladro gentiluomo del linguaggio cinematografico. Kill Bill Vol. 1 è il lato più sfacciato e acrobatico del regista. Un’opera che non chiede di essere credibile ma sa di essere, ormai, irresistibilmente cult.

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