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Il ruolo del mentore nel cinema

Il viaggio del mentore all’interno del cinema.

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Quella del mentore, in particolare nell’industria hollywoodiana basata sull’high concept e il viaggio dell’eroe, è una figura centrale e spesso sottovalutata per la propria posizione laterale. Tale figura può associarsi a qualsiasi categoria umana legata al genere di riferimento: la madre in soccorso della figlia, il professore che vuole educare uno studente ribelle, un mago guida dell’eroe se parliamo di un fantasy, o può anche, in tempi moderni, svelarsi sotto forma di intelligenza artificiale. La composizione del mentore nel cinema è quindi mutata con le epoche, ma la tipologia archetipa è rimasta sempre fedele alla sua funzione prioritaria: far ricongiungere l’eroe della storia, nella maniera più agevole possibile, al destino a cui è fatalmente legato.

Il mentore nel Viaggio dell’Eroe

Nell’ Hero’s Journey di Joseph Campbell, reso celebre successivamente da Christopher Vogler in ambito cinematografico, il mentore compare nella fase iniziale del viaggio, spesso subito dopo la chiamata all’avventura. Il suo ruolo è quello di preparare l’eroe alla sfida trasmettendogli conoscenze e valori e rassicurandolo o motivandolo, anche, talvolta, a sacrificarsi. Campbell definisce tale figura come “vecchio saggio”, un archetipo che si manifesta in tutti quei personaggi che istruiscono, proteggono e fanno agli Eroi dei doni (es: Merlino che guida re Artù; la Fata che aiuta Cenerentola). Il termine “mentore” deriva dall’Odissea, dove, dietro le sembianze maschili, si nasconde la Dea Atena che guida Telemaco nel suo viaggio (prova di come già Omero avesse intuito un’universalità che prescindesse il genere almeno per tale archetipo).

È importante evidenziare come i mentori non siano soltanto coloro che soccorrono l’eroe con doni e senza alcuno sforzo, ma sottolineano soprattutto la necessità da parte del protagonista di una conquista che avviene quasi sempre proprio col sacrificio dell’aver superato una difficoltosa prova. I mentori, alla fine, svolgono una funzione psicologica pressoché divinatoria; sono l’Io, il Dio che è dentro di noi, la nostra parte superiore, quella più saggia che deve ancora emergere. E così, esattamente come l’Eroe che deve imparare, anche il mentore compie un particolare viaggio nella propria educazione, apprendendo l’insegnamento e  istruendo, al tempo stesso, se stesso e il protagonista della storia.

Silente-Piton, la staffetta del mentore

Il caso della saga cinematografica di Harry Potter, adattamento letterario del fantasy di J.K. Rowling, è emblematico per le figure dei due maghi: Albus Silente e Severus Piton. Uno è il preside della scuola di magia di Hogwarts, la metafora del bene senza se e senza ma, dipinto con folta barba e abito bianco, l’altro, la spina nel fianco di Harry. Piton è un ex mangiamorte nonché direttore della casata dei Serpeverde. La sua funzione principale è essere, apparentemente, la nemesi di Potter per foraggiare colui che non si può nominare, Lord Voldermort. Vogler, traducendo Campbell, parla esplicitamente di Piton come una figura ibrida che unisce, attraverso i vari capitoli della saga, aspetti che vanno dall’antagonista all’Eroe catalizzatore passando per il ruolo di mentore nascosto.

L’abito nero e la sua rigidità sviano spettatore e lettore dal suo vero ruolo, ossia quello di spia tra i mangiamorte che lo eleva a reale soccorso per Harry Potter. La morte iconica del personaggio interpretato da Alan Rickman, non solo rivela ad Harry la verità, cioè che per tutto il tempo ha solo desiderato proteggerlo, ma comunica al lettore/spettatore il dinamismo della figura del mentore, nascosto tra gli intrighi del bene e del male. Paradossalmente infatti è proprio la figura di Silente quella più ambigua e a tratti asettica verso la linea morale in nome di una giustizia universale che non guarda in faccia a nessuno.

La guida nascosta

Certo è che per la maggior parte della narrazione il preside di Hogwarts assume il ruolo di fuoco ardente del giusto sul quale Harry può sempre contare per un consiglio, una parola o segno di conforto e per salvare se stesso, Hermione e Ron da interminabili guai. Con lo scorrere dei capitoli la figura di Silente diventa più chiara; la positività dell’archetipo del mentore si affievolisce nei confronti di Piton, in una staffetta nella quale il grande mago incarna un Dio che non guarda in faccia nessuno, nemmeno Harry pronto per essere sacrificato. Nella celebre saga della Rowling quindi assistiamo ad una moltiplicazione dell’archetipo: il mentore cambia maschere e ruoli in virtù del destino dell’Eroe.

Yoda “Il mentore”

Quando si parla di mentori non si può non fare riferimento ad un’altra saga della storia del cinema: Star Wars di George Lucas e al suo Yoda. Tutto nel primo insegnante di Luke Skywalker ci parla di un mentore classico. Yoda è duro e saggio, proteso all’insegnamento e alle lezioni di vita. D’altronde, uno dei suoi mantra citazionistici “Fare o non fare. Non c’è provare”, definisce già la tipologia archetipa di riferimento, inquadrandosi da L’impero colpisce ancora come il mentore tra i mentori. Yoda è la guida motivazionale e fantascientifica mai più rappresentata sul grande schermo. A differenza di altri mentori molto presenti con i propri Eroi (basti pensare ad un’altra importante trilogia come Il Signore degli Anelli con Gandalf), questo “nanerottolo verde” di 900 anni è un guerriero riluttante che preferisce la meditazione filosofica all’azione, un mentore spirituale che non guida solo Luke con l’istruzione, ma con l’esempio.

La Forza e l’equilibrio

Nella trilogia originale Yoda crede che la Forza sia l’energia che lega tutto, per questo invita Skywalker a conoscere sé stesso e il proprio equilibrio prima di affrontare il nemico. Nella trilogia prequel invece, dalla sua posizione di potere, riflette anche sulla figura stessa del mentore che custodisce la tradizione tentando di comprendere come gli altri Jedi si siano allontanati dallo spirito autentico della Forza. Ritorna poi nella trilogia sequel riconquistando fiducia nel suo archetipo, incoraggiando Luke a trasmettere ciò che ha imparato: “Il fallimento è il più grande maestro”.

Sean Maguire, la psicoanalisi del mentore

L’archetipo del mentore non è solo tipico di racconti epici di generi come l’azione, i fumetti o il fantasy, ma è una figura che interessa anche altre dinamiche proprie dei drammi, dramedy e romanzi formativi. È il caso della sublime interpretazione di Robin Williams in Will Hunting. Nel film di Gus Van Sant, il compianto attore americano interpreta lo psicologo Sean nella difficile impresa di gestire il genio dell’irruente personaggio di Matt Damon. Questo è un caso interessante riguardo al percorso del mentore all’interno di un film. Fin da subito lo psicologo/mentore abbatte le barriere del mero insegnamento per essere qualcosa di più, una guida che sconfina nel rapporto padre-figlio. Non siamo più dinnanzi all’ascetismo rigoroso di Yoda o all’ambiguità di Severus Piton.

Il padre e il figlio

Williams/Sean si colloca in un rapporto che da spinoso si tramuta in paterno, un legame embrionale che mira a risolvere le problematiche interiori di Will e dare un senso al passato tragico dello psicologo. Anche qui le frasi simbolo del film diventano il cuore della narrazione emotiva, passando dalla rivalità di “Tu non sai niente della vita, non hai mai provato l’amore”, alla fidelizzazione affettiva tra i due personaggi di “Non sei colpevole”. Sean è quindi per Will la prima figura veramente paterna e Will in risposta è per Sean il mezzo per fare pace col proprio passato ( la perdita della moglie). Entrambi, mentore ed Eroe, si scambiano in prove e doni reciproci, venendo ricompensati dal legame di un tanto inatteso quanto intenso rapporto umano.

Woody Allen : se non posso essere felice posso essere un mentore

C’è infine il caso di Woody Allen, uno dei maggiori interpreti nel campo delle relazioni nella storia del cinema, che a suo modo dà estensione ed applicazione alla figura del mentore. Prendendo come casi di studio due dei suoi principali capolavori, Annie Hall e Manhattan, l’alter ego di Allen, nevrotico e assetato dall’utopia di essere desiderato e amato ad ogni costo, passa dal mito romantico a quello di vero e proprio mentore, riuscendo, forse inconsapevolmente, a far evolvere e rendere emancipate le proprie amanti. Particolare e centrale è il caso di Annie Hall e la love story con la sua musa Diane Keaton.

L’alter ego catalizzatore

Inizialmente, Annie, pende dalle labbra dello scrittore che in un certo senso la manipola per farla assomigliare a lui. Poi però, nel corso del film, Alvy/Allen muta in una sorta di mentore catalizzatore che rende il personaggio della Keaton indipendente, libera dalla costruzione culturale e accompagnandola nella rottura ripetuta e nella crescita personale definitiva. Una struttura simile è applicata in Manhattan con il personaggio di Tracy, la studentessa minorenne che Isaac lascia per la giornalista Mary (Diane Keaton). Alla fine, in quella meravigliosa carrellata tra le strade di Manhattan, il personaggio di Allen supplica la ragazzina di non partire per Londra e di restare a New York. Ma Tracy, ormai emancipata dalla tossicità amorosa di Isaac, decide di partire lo stesso, lasciando al tempo e al loro amore la prova più dura per l’alter ego di Allen: rimanere sospeso invece di sospendere.

In conclusione, nel cinema l’archetipo del mentore, indipendentemente dal genere o dalla centralità del suo ruolo, tende sempre a chiudere il cerchio del destino dell’Eroe. Il viaggio dell’eroe acquista senso solo se guidato e istruito da una voce interna, spesso invisibile ma fondamentale: quella del mentore, che altro non è se non l’Io nascosto del protagonista.

 

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