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Una faccenda britannica: ‘Il danno’ e lo squisito caos della passione proibita

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Il danno (Damage) di Louis Malle è uno di quei rari drammi erotici degli anni ’90 che risulta al tempo stesso sfacciato e stranamente elegante: una storia d’amore destinata a fallire, avvolta in cappotti, tappeti parlamentari e nello squisito disagio che solo la classe dirigente britannica può gestire.

È basato sull’omonimo romanzo di Josephine Hart, ma il vero fascino del film ha poco a che fare con la meccanica della trama o con la critica sociale; piuttosto, la sua attrazione duratura risiede nel modo in cui ci seduce a guardare due persone che distruggono le proprie vite per il sesso tra scale e pomeriggi rubati in hotel.

È un film così sfacciatamente eccessivo nella sua calamità morale da diventare quasi comico, ma è proprio lì che risiede il suo piacere illecito.

Jeremy Irons: Il santo patrono degli uomini infestati dai cappotti su misura

Guardare Jeremy Irons aggirarsi per Il danno è come osservare un fantasma purosangue. Scarno, incredibilmente patrizio, con una voce che trasuda stanco rimpianto anche quando sussurra promesse oscene: questo è Irons nel suo habitat naturale. Il suo Dr. Stephen Fleming, parlamentare britannico con una moglie (Miranda Richardson, magistrale nella sua silenziosa devastazione) e un promettente futuro politico, si invaghisce di Anna, l’amante di suo figlio (Rupert Graves).

Ciò che segue è una relazione catastrofica che si svolge dietro le inamidate cortine del privilegio. Irons interpreta la parte magnificamente: è il titano del tormento dalle labbra sottili, che cammina a grandi passi attraverso corridoi signorili e uffici parlamentari, sempre con l’aria di chi ha appena visto un fantasma – e, naturalmente, lo ha visto: il suo stesso riflesso, scavato dalla vergogna.

Binoche, Irons e la dolce agonia dell’imbarazzo britannico

Juliette Binoche, luminosa e inquietante, è il perfetto contraltare. La sua Anna è tutta mistero latente e crudeltà disinvolta, così opaca che si potrebbe scambiare il suo distacco per innocenza. Insieme, Binoche e Irons evocano una chimica al tempo stesso magnetica e dolorosamente imbarazzante – l’essenza del fascino peculiare del film. Si scontrano in camere d’albergo e appartamenti in affitto, alimentati meno dall’amore che da un desiderio che sembra imbarazzare persino loro.

Qui risiede la grande britishità di Damage: non nei suoi accenti o nei suoi sfondi, ma nel silenzio mortificante della buona società, sconvolta da un bisogno primordiale. Niente è più inglese che vedere due persone ben educate scusarsi con gli occhi mentre si rovinano.

Una storia così assurda da essere quasi perfetta

Sulla carta, la narrazione di Il danno è quasi ridicola. Un illustre parlamentare va a letto con la fidanzata del figlio, sperando che nessuno se ne accorga – come se incontri clandestini sulle scale e incontri sempre più spericolati potessero mai rimanere privati nel mondo privo di ossigeno delle cene di Westminster e dei pettegolezzi da salotto.

L’audacia con cui la trama si intensifica – fino alla catastrofe finale con una caduta fatale – sfiora il melodramma, se non la soap opera vera e propria.

Ma la regia di Malle e la ferrea compostezza del suo cast legano l’assurdità a qualcosa di crudo e doloroso. Sappiamo come andrà a finire, eppure è impossibile distogliere lo sguardo, perché il film ci ricorda quanto sia fragile l’impalcatura della civiltà.

Quando il forbidden diventa deliziosamente guardabile

Il danno non è sottile nella sua tesi centrale: il desiderio ti ucciderà. O almeno ti rovinerà le cene della domenica. Le sue scene di sesso non sono né stilizzate né particolarmente erotiche per gli standard odierni: sono spesso imbarazzanti, al limite della ferocia, con la telecamera che indugia sull’urgenza poco glamour di due persone che sanno di non doverlo fare.

Eppure, è proprio per questo che funzionano. Vedere la compostezza compassata di Irons sciogliersi in un bisogno abietta è di per sé un piacere colpevole, così come vedere Binoche brandire il suo fascino calmo e quasi predatorio come un’arma. C’è una vaga assurdità nel modo grave in cui il film tratta questa vicenda, ma anche un innegabile brivido voyeuristico.

Un danno che ne vale la pena

Il danno è un capolavoro? Forse non nel senso tradizionale. La sua trama oscilla tra la tragedia greca e un torbido shock scandalistico. A volte mette a dura prova la credibilità che persone così intelligenti siano così incapaci di sotterfugi. Eppure, è proprio questa la sua genialità: Il danno sa che la vera catastrofe non è solo l’infedeltà, ma la pura e sconsiderata resa a essa. Le interpretazioni danno corpo alla follia: il dolore negli occhi infossati di Irons, la crudeltà velata di Binoche, la giusta implosione di Richardson quando il segreto si infrange.

Trent’anni dopo, Il danno sembra quasi una curiosità d’epoca: un film di un’epoca in cui i thriller erotici osavano prendersi così sul serio. Ma il suo cuore pulsante – vergogna, desiderio, il rovinoso desiderio di evadere dalla propria vita costruita con cura – rimane senza tempo.

In Damage, non c’è cura, non c’è redenzione. Solo lo spettacolo straordinario di un uomo che apre la propria vita, un bottone alla volta, finché non rimane altro che il ricordo di cosa si provava ad essere vivi, per un attimo sconsiderato.

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