Quando Shrek uscì nel 2001, il mondo del cinema d’animazione si trovò di fronte a un oggetto narrativo non identificato. Non era la solita favola zuccherosa a cui la Disney aveva abituato generazioni di spettatori. Shrek era sporco, sarcastico, emotivamente imperfetto — e proprio per questo rivoluzionario.
Shrek: un’antifiaba che ha riscritto l’animazione
Il film racconta la storia di un orco solitario che, per riconquistare la pace della sua palude, si ritrova a salvare la principessa Fiona dalle grinfie di un drago. Ad accompagnarlo c’è Ciuchino, un asinello iperattivo e logorroico, che diventa il primo vero amico della sua vita. La trama, pur seguendo l’impianto classico del viaggio dell’eroe, si diverte a ribaltare ogni cliché.
Visivamente, Shrek è un capolavoro di CGI per l’epoca. L’uso della computer grafica non è solo un vezzo tecnico, ma un linguaggio perfetto per dare corpo a un mondo grottesco, caricaturale e denso di ironia. I personaggi si muovono con una fisicità mai vista prima, e i dettagli delle ambientazioni — dalla melma della palude ai riflessi metallici dell’armatura di Farquaad — raccontano già una nuova generazione di cinema animato. Ma ciò che rende Shrek davvero speciale è il suo cuore: un messaggio profondo sulla diversità, l’accettazione e la libertà di essere se stessi, fuori dagli stereotipi imposti da un immaginario fiabesco ormai logoro.
Alla fine, nonostante i suoi rutti e le sue maniere grezze, Shrek diventa un simbolo di autenticità. E Fiona, scegliendo di restare orchessa per amore, dimostra che la bellezza vera non ha nulla a che fare con le apparenze. Un colpo di genio mascherato da commedia per famiglie.
Shrek e la nascita della DreamWorks: la vendetta dell’orco
Per quanto sia stato uno dei film più amati della sua epoca, Shrek non è nato solo da un’idea creativa brillante. Il film è anche il frutto di una vicenda aziendale complessa, che ha avuto come protagonisti alcuni dei nomi più potenti dell’industria dell’animazione. Negli anni ’90, Jeffrey Katzenberg era uno dei leader della rinascita Disney, grazie a film come Il Re Leone e Aladdin. Gli era stato promesso che, in caso di vacanza del ruolo di presidente (allora occupato da Frank Wells), lui ne sarebbe stato il successore. Ma quando Wells morì tragicamente in un incidente in elicottero, Michael Eisner — CEO della Disney — decise di trattenere quel potere per sé, scatenando una faida interna.
Katzenberg si sentì tradito e, dopo una causa legale vinta contro la Disney, venne licenziato. Insieme a Steven Spielberg e David Geffen, fondò la DreamWorks SKG, con l’intento non solo di fare concorrenza a Disney, ma di sovvertirne i codici. Shrek divenne il simbolo di questa missione: un film che prendeva in giro, direttamente e senza mezzi termini, l’universo fiabesco Disneyano. Il villain Lord Farquaad è un’imitazione plateale di Michael Eisner: un sovrano tirannico, di bassa statura, arrogante, ossessionato dal controllo e rinchiuso in un castello in stile parco a tema — un riferimento nemmeno troppo velato a Disneyland.
Anche il regno di Duloc, con le sue regole maniacali e la sua estetica sterile, è una critica pungente all’immagine artificiosa e iper-perfetta venduta da Disney. In questo senso, Shrek è anche un film “politico”: un’opera che nasce da uno scontro reale e si fa beffe, con ironia, di un intero impero mediatico.
Lo humor che prende in giro tutto (e tutti)
Uno degli elementi che hanno reso Shrek immortale è il suo senso dell’umorismo. Il film è pieno di gag visive, giochi di parole, situazioni assurde e ironia tagliente. Ma soprattutto è un film che si diverte a prendere in giro tutto il cinema che lo ha preceduto. Dai film Disney ai kolossal hollywoodiani, ogni sequenza sembra essere una parodia, un tributo e al tempo stesso una risata in faccia alla cultura pop. Il salvataggio della principessa Fiona, ad esempio, ricorda i classici Disney come La Bella Addormentata, ma viene sabotato da un orco rozzo e da un asinello impertinente. La lotta con il drago vira verso l’assurdo, mentre Fiona stessa si rivela capace di mosse da arti marziali degne di Matrix.
Le citazioni non si fermano ai cartoni animati. In una sola scena si può intravedere un riferimento a Robin Hood, uno a The Matrix, uno ai musical di Broadway. L’inno d’ingresso a Duloc è una satira dei jingle promozionali dei parchi a tema. E la colonna sonora — un mix perfetto di canzoni pop, rock e momenti orchestrali — contribuisce a rendere il tutto ancora più irriverente. Non ci sono canzoni originali da musical, come nella tradizione Disney: Shrek usa All Star degli Smash Mouth come inno di presentazione, ribaltando ogni aspettativa.
Lo humor di Shrek è multilivello: i bambini ridono per le facce buffe, gli adulti colgono le frecciatine nascoste. È questa capacità di parlare a tutti che ha reso il film un cult intergenerazionale. E mentre fa ridere, Shrek insinua dubbi, rompe miti e propone un nuovo modo di vedere il mondo delle fiabe: non come un modello da imitare, ma come un terreno da reinventare.

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