C’è una guerra che non ha bisogno di musica, di eroi, di inquadrature larghe e di redenzione. É fatta di stanze chiuse, respiri trattenuti, silenzi che esplodono. È quella che Alex Garland e Ray Mendoza raccontano in Warfare – Tempo di guerra: un film che toglie tutto per lasciarci solo l’essenza. Quella disturbante e vera che rimane addosso come polvere da sparo. Ci sono solo soldati americani in attesa, in una casa irachena, nel mezzo di un’operazione del 2006. Uomini armati, intrappolati nel tempo immobile di una missione che forse è già fallita. È così che Warfare – Tempo di guerra comincia. O meglio: non comincia, accade. Ispirato alla reale esperienza di Mendoza – ex Navy SEAL, ora co-regista – il film è un concentrato di tensione pura, girato come se fosse un reportage. Garland, che ha sempre amato i confini estremi della psiche umana, ha deciso di raccontare senza artificio: niente eroi, niente nemici, solo il suono della guerra che si avvicina. E l’attesa che logora, silenziosa come una fitta al petto.
Presentato in anteprima al 71° Taormina Film Festival, é dal 21 agosto al cinema con I Wonder Pictures.
Realismo brutale e una potenza inquietante
Warfare – Tempo di guerraimmerge il pubblico in un plotone di Navy SEAL, americani impegnati in una missione in territorio insurrezionale. Girato quasi interamente all’interno di un’abitazione irachena, il film segue l’unità infiltrata in una casa civile nel cuore di Ramadi. Ogni membro del battaglione ha un ruolo preciso. Attraverso i mirini delle loro armi da fuoco osservano l’ambiente circostante alla ricerca di possibili attività sospette. In pochi istanti tutto cambia: la detonazione di una granata che sfonda una delle finestre scatena il caos all’interno dell’edificio. Ci sono feriti ovunque. Mentre i soldati attendono l’arrivo di un carro armato di evacuazione, il rombo degli aerei che sorvolano il cielo rompe il silenzio che si è impadronito delle reclute. I loro volti riflettono confusione e paura. Presagi di morte. E se una densa nube sembra nascondere le conseguenze della tragedia, sono le urla strazianti di orrore e dolore a riportare chi guarda alla realtà. Siamo di fronte a un’immersione totale in un conflitto che non viene glorificato, ma scomposto nella sua essenza più cruda: paura, rumore, morte, caos.
Nessun eroe, nessuna redenzione
Garland e Mendoza costruiscono un film che non ha precedenti: rifiutano qualsiasi impianto narrativo tradizionale. Non ci sono eroi, non c’è redenzione, e non c’è un messaggio di salvezza. Grazie al preciso lavoro di montaggio, che combina le immagini satellitari con la prospettiva del gruppo, i due registi ci immergono in un’esperienza violenta e traumatica. Pur non sapendo nulla dei protagonisti, lo spettatore vive tutte le dimensioni e la sofferenza di una battaglia spietata e sanguinosa. L’esperienza è straziante, angosciante e desolata. Warfare non mira a glorificare le gesta dell’esercito statunitense. I soldati sono solo numeri. D’Pharaoh Woon-A‑Tai, nei panni dello stesso Mendoza, incarna una via di mezzo tra l’eroe e lo spettatore inerme.
E se da un lato questa scelta radicale restituisce un senso di realismo senza precedenti, dall’altro rischia di lasciare lo spettatore emotivamente distante. L’assenza di approfondimenti psicologici rende difficile affezionarsi ai personaggi. La famiglia irachena reclusa diventa un semplice simbolo; i due scout italiani, scambiati per nemici, muoiono in disparte. Ma forse è proprio questa mancanza di sentimenti il punto centrale del film. Perché in guerra, l’individuo si dissolve e l’umanità cessa di esistere.
A dominare la scena non è un volto solo, ma un insieme di presenze. Il cast di Warfare agisce come un organismo coeso, privo di protagonismi. D’Pharaoh Woon-A-Tai regala allo spettatore una prova magnetica, Will Poulter e Joseph Quinn si muovono con rigore nervoso, mentre Taylor John Smith restituisce con precisione l’apatia disillusa di chi è già troppo segnato. Non ci sono eroi, né storie individuali da seguire: Garland e Mendoza lasciano che siano i volti, i gesti e i respiri trattenuti a raccontare tutto.
Cinema di sottrazione
La regia di Garland è iperrealistica: non cerca lo stile, ma l’autenticità. É supportata da una fotografia claustrofobica e naturale, con un taglio quasi documentaristico. E l’assenza di colonna sonora amplifica la tensione. Si sentono il rumore metallico delle armi, i respiri trattenuti, le esplosioni improvvise che diventano protagoniste quanto gli attori. È un cinema che non consola e non spiega, ma obbliga a osservare. Si rifiuta di spiegare, preferisce mostrare. È un esperimento cinematografico che ribalta le regole del war movie per restituire l’esperienza soggettiva e traumatica del conflitto moderno. Può risultare alienante, ma proprio in questo risiede la sua forza.
Un’opera che non racconta la guerra: la fa sentire. E proprio per questo, scuote più di molte altre.