In occasione de Le Giornate della luce, l’ambito festival che approfondisce il ruolo della fotografia nel cinema, abbiamo intervistato l’acclamato regista Saverio Costanzo. Autore di sublimi opere come Private, Hungry Hearts, e Finalmente l’alba, Costanzo ci ha parlato del rapporto con i suoi direttori della fotografia, della sua formazione newyorkese, e del suo linguaggio.
Saverio, terrai il 15 giugno una masterclass a Le Giornate della luce, un festival importante per come approfondisce il ruolo dell’autore della fotografia. Inoltre il tuo ultimo film, Finalmente l’alba, chiuderà il Festival. Ti chiedo: proprio per l’uso fotografico differente nei tuoi lavori, qual è per te il ruolo della fotografia nei tuoi film? Lo consideri uno strumento narrativo, espressivo o estetico?
Tutte e tre le cose insieme. Nel senso che il cinema è una di quelle forme di espressione che è composta di tante cose ed è difficile fare una classifica. Però la fotografia al cinema credo sia importante quanto l’attore che è davanti la macchina da presa, o quanto il copione. Il cinema è fatto di immagini, ed è difficile vedere un bruttissimo film che ha una bellissima fotografia. È tutto un insieme in realtà, non si può dividere il cinema in settori.
Il lavoro fotografico in Finalmente l’alba
Partiamo proprio dal tuo ultimo film. In Finalmente l’alba, la protagonista, Mimosa, fa un viaggio nella Cinecittà del successo effimero che sembra riproporre la Babilonia hollywoodiana. In quest’ultimo aspetto non si possono non notare le luci calde che evocano la magia del cinema classico, e l’uso negli interni con contrasti di luce e ombre che riflettono la tensione tra i personaggi, come avviene con Mimosa nella scena della festa nella villa sontuosa. Nel corso del film passi dal peplum al thriller con riecheggi di Polanski e Lynch. Ti chiedo se c’è stata una netta decisione di natura fotografica per esplorare il sobbalzo di generi che si vede nel film.
Guarda, la fotografia non è mai un atto intellettuale. Un direttore della fotografia, in questo caso il mio bravissimo Mukdiphrom, ha una suggestione, poi insieme ci confrontiamo sui colori. Però è chiaro che veniamo da un’apertura alla luce del sole e poi ci infiliamo nella notte. Di conseguenza era abbastanza scritto che il film dovesse avere questo tipo di andamento. E poi dentro questo, il bravo direttore della fotografia, che è l’autore della fotografia, interpreta, a seconda dell’ambiente che ha, la propria visione. Perciò quello che dici è corretto ma non è un gesto intellettuale. È impossibile stabilire intellettualmente un’immagine, dal mio punto di vista.

La fotografia è un gesto istintivo
Nei tuoi progetti la luce, a mio modo di vedere, inghiottisce o destabilizza il tratto psicologico dei tuoi personaggi. In una serie che io amo molto, In Treatment, con Sergio Castellitto, la luminosità della fotografia invece che agevolare le vicissitudini di Giovanni Mari lo rinchiude in una sorta di crisi esistenziale e coniugale. E in un altro film che ho amato, Hungry Hearts, l’intimità dell’interno diventa claustrofobico tra i due personaggi, dando alla messa in scena un senso di oppressione visiva. Ho sempre avuto la sensazione che attraverso l’apparente “felicità”della luce, tu hai sempre cercato di mettere in contrasto ciò che si vede da ciò che i tuoi personaggi vivono internamente. Mia impressione o c’è un elemento di verità?
È interessante questo. Guarda su In Treatment sospendo la risposta. In Treatment ho desiderata farla, ho imparato anche molto, ma era una versione americana di una versione israeliana. È come se questa sua caratteristica facesse noi dei pittori di icone, che non scegliamo il colore, non scegliamo l’immagine, semplicemente seguiamo un impianto già esistente. Con In Treatment noi non abbiamo voluto inventare qualche cosa, ma abbiamo voluto replicarla che è una cosa molto diversa. Per quanto riguarda Hungry Hearts, Fabio (Cianchetti) non crea mai immagini tragiche perché è libero e selvaggio. Il suo gesto è istintivo, e mai drammatico per ideologia. E secondo me funziona il rapporto perché io tendo a intellettualizzare le idee e queste due correnti contrarie creano un movimento interessante. Fabio è uno di quegli autori della fotografia che non riesce a non guardare l’attore, non predilige mai l’oscurità all’attore.

Il profondo legame con Fabio Cianchetti
E questo a me ha aiutato moltissimo. Sai, il direttore della fotografia dipende anche dal tipo di film, e io sono sempre aperto al cambiamento, ma quello che cerco io è che sia prima di tutto una persona istintiva. Poi il lavoro lo fa sempre col regista. È il regista che ti sprona a cercare qualcosa che non conosci di te, qualcosa che non hai esplorato, a uscire dalla tua zona di conforto. A me piace sempre pensare di trovare persone che hanno un istinto poco intellettuale. Infatti il digitale mi lascia sempre un po’ perplesso, cominciano ad esserci tantissime mediazioni; il colorist oggi è importante almeno quanto il direttore della fotografia , mentre io ci tengo a girare in pellicola proprio perché rende il lavoro del direttore della fotografia più suo.
Non so come la pensi, ma ho sempre creduto che il direttore della fotografia è quel migliore amico che sorregge il regista, lo supporta e lo aiuta nella realizzazione ottimale secondo la sua visione, la tua visione, anche perché nella maggior parte dei tuoi progetti sei anche autore della sceneggiatura. Nella tua carriera hai collaborato con Luigi Martinucci per il primo film, con Mario Amura per In memoria di me, e con Fabio Cianchetti per gli altri due e L’amica geniale, cambiando in Finalmente l’alba con il d.o.p thailandese Mukdiphrom, frequente nelle collaborazioni di Luca Guadagnino. Ti chiedo se questa esigenza risponde a un cambiamento del tuo cinema da uno stile più realista a uno più psichedelico. E di norma che parametri usi per scegliere il direttore della fotografia?
Ogni film ha la sua natura, le sue necessità, il suo stile di riprese, il suo stile di immagine. Tutte le volte rimango colpito da Fabio, e tutte le volte non sa chi sono i personaggi, ma è proprio il suo essere un po’ selvaggio che fa sì che Fabio sia puro e rigoroso. Creando qualcosa che somiglia solo a quello, e quindi a se stesso. Quando dico rigoroso e puro è proprio un moto interiore. Per questo dico che l’immagine non appartiene a un pensiero razionale. Studiare troppo o riflettere troppo secondo me è controproducente. Anche Mukdiphrom è molto simile in questo; nonostante sia thailandese ha saputo benissimo interpretare Roma, e anche lui non si pone rispetto alla fotografia dal punto di vista intellettuale. Questo è quello che mi piace cercare da un direttore della fotografia, anche perché è colui che può interiorizzare insieme a me di più il film.
L’osservazione partecipata di Costanzo
Vorrei fare un passo indietro alla tua formazione e ai tuoi esordi. Prima di passare al mondo finzionale, hai iniziato come documentarista nei tuoi anni newyorkesi, arrivando a fondare la casa di produzione Offside che tra le altre cose si è occupata della realizzazione di documentari. Trovo interessante che, a differenza di molti registi che passano dal corto ai film, tu un po’ come Claudio Caligari sei passato dal documento realista al cinema di finzione. Siccome nei tuoi progetti questa realtà della vita ha un suo tratto abbastanza evidente, che cosa ti ha spinto all’inizio a raccontare le storie con la realtà invece che con la finzione?
Io in realtà non ero un vero e proprio documentarista. Io volevo fare l’etnografo, volevo studiare le piccole realtà, e nella mia tesi di laurea, invece di usare il taccuino o i libri di ricerca, volevo farlo con la macchina da presa. Comprai a New York una XL 1, che era una Canon col microfono adatta ad essere trasmessa, la prima macchina consumer che aveva però una qualità quasi professionale. La mia tesi di laurea è un film di sette ore che è tutto dentro un bar. Non era quindi in realtà un documentario, più un’osservazione partecipata. Non mi sono mai sentito un documentarista, mi sentivo di più un etnografo. Tra l’altro Caligari per me è davvero importante, non lo nomini a caso. Il primo film che ho visto per davvero è stato proprio Amore tossico.
Sono nato nel ’75. Quindi ho visto tutti i film dei ragazzini dell’epoca: Ritorno al Futuro, E.T. Però fu Amore Tossico, che una mia amica mi ha portato in VHS a casa un sabato dopo scuola (ero in terza media), che mi ha davvero cambiato, insegnato cos’è un film. Tanto che forse tutto quello che faccio, dall’uso della musica fino a un certo amore per il cinema di genere, che per me è un atto di grandissima umiltà da parte dei registi, è grazie a lui. Incontrai Caligari grazie a un amico in comune, e tutto quello che lui mi ha detto una sera alla festa dell’Unità di ponte Milvio io poi l’ho scoperto facendo cinema. Il viaggio che ha fatto Caligari io l’ho fatto dopo perché anche lui in Amore tossico parte dal documentario e abbraccia il film.
Il rapporto con Amore Tossico
Saverio parliamo de L’amica geniale, grande successo tratto dai romanzi di Elena Ferrante, con una co-produzione tra Rai e HBO. Nell’ultima stagione mi è sembrato di rimanere in un mondo che conoscevo già. Tra i meriti della serie, a mio parere, rientra l’operazione di fidelizzazione del pubblico a un prodotto che va oltre le generazioni. Il cambiamento dei volti di Lenù e Lila nel corso del tempo non ha intaccato il nostro affetto alla storia, perché è il racconto che alla fine contava più del cambiamento delle sue interpreti. Ti sei definito per l’ultima stagione, se non sbaglio, come un fantasma onnisciente.
Hai condiviso la regia con Alice nelle prime due stagioni, per poi occuparti della scrittura degli episodi passando il testimone a Daniele Lucchetti per la terza stagione e per l’ultima a Laura Bispuri, regia che ho amato per il pedinamento ravvicinato dei personaggi. Ho sempre avuto l’impressione che questa regia collettiva a quattro mani rispondesse anche a un’evoluzione dello stile della serie, mantenendo quel romanzo di formazione che credo sia passato anche dal mutamento registico. Ha del vero questa mia riflessione?
Il cambiamento estetico ne L’amica geniale
Ma, guarda, io alla fine penso di sì. Io in realtà quello che avevo pensato all’inizio di questa bellissima storia era far emergere un certo tipo di linguaggio. Perché il cinema ha avuto, nella sua storia, un’evoluzione. A me piaceva riproporre il linguaggio che esisteva all’epoca. Far visionare allo spettatore un’esperienza che non sia fatta dall’oggi, perciò pensavo per la serie al neorealismo. Ed è negli anni ’60 con queste ragazze della Nouvelle Vague con grandi autori come Godard, che si creava una nuova forma di racconto che rompeva un po’ le cose.
Nella prima stagione non abbiamo mai messo la macchina sulla steady-cam, abbiamo fatto il cinema come si faceva all’epoca, quindi col carrello. Con la seconda invece ci siamo liberati di questa attivazione. Nella terza invece Daniele (Lucchetti), che in questo è un interprete eccellente, ha riprodotto un po’ il cinema degli anni ’70, della Nuova Hollywood, un cinema di racconto matrimoniale.

Pensa a Taxi Driver che è un film claustrofobico, a Kramer contro Kramer, a Il laureato, c’è tutta una questione di chiusura. È come se il mondo si stesse chiudendo e perciò i registi interpretavano l’interno, e in ciò Daniele ha forse seguito questa indicazione. Poi arrivano gli anni ’80, quando il cinema ha smesso di cambiare e di inventarsi rispetto a quello che c’era prima.
E Laura (Bispuri), che è una regista che tende a privilegiare l’attore, a non fare una regia accentata ma più un flusso interiore, ha interpretato un po’ quella parte delle ragazze. Perciò quello che io ho chiesto alla Rai e alla HBO, era di non far diventare L’amica geniale una serie diretta da quattro registi. Io credo che sia sensata una stagione se la gira solo una persona, il contrario è un po’ irrispettoso per il lavoro di un regista. È importante il punto di vista del regista, se no così si rischia di fare solo industria, solo prodotto.
Nei tuoi ultimi film hai questa tendenza di lavorare con attori stranieri, molto spesso americani. In Hungry Hearts c’era Adam Driver poi divenuto un divo hollywoodiano. In Finalmente l’alba la star di Stranger Things Joe Keery, William Dafoe, e Lily James. Nell’ultimo film hai anche avuto finanziamenti di un certo spessore come dimostrano l’estetica e gli attori coinvolti. Ti chiedo se il cambiamento di budget ha portato delle esigenze diverse in te. E se è cambiato o meno il tuo approccio nella costruzione del film.
Su queste cose del budget io purtroppo sono stato un regista ingenuo. La nostra storia purtroppo è una storia che viene anche dai nostri errori. E i nostri errori, nel nostro mestiere, sono spesso frutto di distrazione. Ci sono momenti in cui ti lasci un po’ andare. Allora, dopo tanti anni de L’amica geniale io ero costretto a fare il manager, cioè a gestire cinquanta milioni con grandissimi mezzi.

Quando poi ti metti a scrivere e viene fuori quella storia, per come sono io come regista, secondo me il budget non mi condiziona ma è un errore che non mi condizioni. Dal momento che hai un grande budget allora non devi fare quella storia in quel modo. Questo è anche un errore dei produttori nel non sapere che quella storia è mia, e quindi personale, e non può piacere a tutti. Ricordo una frase di Wes Anderson, che non è un regista che amo particolarmente, a proposito del suo Le avventure acquatiche di Steve Zissou : la prossima volta non farò un film di ottanta milioni ma di venti, perché è la cifra che io posso far tornare indietro.
Quindi il grande budget limita il regista d’autore?
Ma no, o meglio dipende. Però la domanda è: forse quel film poteva essere fatto con meno? Ma poi, sai, entra in gioco il desiderio del produttore di far vedere sempre di più, di mostrare. Io non credo di essere un regista che può incontrare una platea cosi ampia come quel budget. Per me, se il produttore mi avesse detto che ho solo due milioni per farlo, io lo avrei fatto comunque, e sarebbe stato anche più giusto. Hungry Hearts è costato seicento mila euro, Private cento mila, ma il mio approccio non è diverso da Finalmente l’alba, è lo stesso, identico. Se avessi avuto per Hungry Hearts venti milioni, per me sarebbe stato peggio, in fondo non servivano.
Nel cinema bisogna sbagliare per essere liberi
Per me era importante ri-fare l’opera prima: mettermi la macchina sulle spalle, sentire il film, sbagliare, vivere un’esperienza personale, farlo in una città che non è la tua. Tutte cose che sono dentro il film. Cassavetes faceva i film nei weekend, e io volevo fare qualcosa che avesse quello spirito. E le difficoltà fanno la libertà del film. Forse io in Finalmente l’alba non sono stato in grado di mantenere lo stesso livello di libertà che cercava la protagonista Mimosa.
Ci sono dei registi che ti hanno colpito di più in questi ultimi anni?
Guarda io ho visto After Sun di Charlotte Wells e mi ha molto colpito. Tra i registi italiani sicuramenti i fratelli D’Innocenzo, apprezzo la loro visione, il loro sguardo d’autore, hanno un loro punto di vista, cercano qualcosa. Anche Pietro Castellitto. Mi colpì moltissimo anche l’opera prima di Gipo Fasano, Le Eumenidi , era girato col telefonino. Ci sono tanti registi italiani che apprezzo molto.
Come vedi, Saverio, il futuro del nostro cinema anche alle luce delle ultime polemiche istituzionali?
Io vedo il nostro cinema bene. Attendo il film di almeno dieci registi, non è un numero piccolo. Non è quindi una cinematografia morta. Certo, credo che la questione del tax credit è comunicata in modo poco chiara. Come se fosse un regalo dello Stato al cinema. E non è affatto così. Per dire, in America se c’è l’uragano Katrina, il governo americano mette in Lousiana il tax credit al 40% che è molto conveniente. Girando i film in Lousiana si risolleva un’economia perché la gente lavora, ristoranti e alberghi sono pieni.
Se gli incentivi ci sono per le auto non vedo perché non dovrebbero esserci anche per il cinema. E gli incentivi permettono a noi di lavorare. Il tax credit sicuramente come percentuali verrà abbassato come gesto simbolico, solo perché c’è un’ideologia che il cinema italiano sia schierato contro il governo di centro-destra. Una bagarre un po’ insensata. Se la legge venisse comunicata meglio al cittadino, e non fosse solo una guerriglia da stadio, verrebbe anche capita meglio.