Sabato 14 dicembre, alle ore 21:00, a cura dell’Associazione Giulio Turci (progetto ‘Le stanze di Libra’), verrà proiettato e discusso il docufilm di Ugo Amati e Michele Bianchi Jean Oury: l’incantesimo della creazione. L’appuntamento è alle 21:00 alla celletta Zampeschi, in Santarcangelo di Romagna. Sarà presente, in qualità di relatore, e con una sua opera pittorica, Oscar Piattella, il quale parteciperà ad un dibattito che vuole idealmente proseguire quello avviatosi il mese scorso a Padova, nell’Accademia Platonica delle Arti dove era stato proiettato il docufilm su invito di Ettore Perrella. Perrella, che non sarà presente a questa serata romagnola, è uno studioso che sta completando la prima traduzione mondiale dell’opera completa del monaco greco del XIV secolo Gregorio Palamas, il massimo esponente di quella ‘teologia del monachesimo’ senza la quale sarebbe impossibile comprendere l’ortodossia stessa e il problema dell’immagine e del suo apparire strettamente ad essa intrecciato. La relazione tra questi aspetti della ricerca estetica e il cinema come forma d’arte a tutta prima sono oscuri, per non parlare del tema arte e follia di cui il docufilm è dedicato, se non venissero in nostro soccorso alcune opere cinematografiche italiane fondamentali per comprendere quantomeno qual è la posta in gioco a questo livello di intersecazione di piani a tutta prima eterogenei. Se ne possono ricordare quattro: Edipo re e Medea di Pier Paolo Pasolini, Nostra Signora dei Turchi e Salomè di Carmelo Bene. Nel cortometraggio sull’incantesimo della creazione, dedicato allo psichiatra Jean Oury, Pasolini e Bene rimangono impliciti, mentre ciò che insiste alla lettera sono alcuni brevi ma significativi passaggi tratti da opere di Michelangelo Antonioni e Federico Fellini. Il dibattito atteso si propone dunque di fare il punto sulla stessa ricerca attorno al significato e al senso di qualcosa come una ‘sintesi delle arti’, che secondo prospettive diverse tutti questi autori stanno portando avanti da tempo. Piattella e Amati col libro LaLuce. Dialoghi tra un pittore e uno psichiatra. Con tre poesie di Yves Bonnefoy(edizioni Walter Stafoggia), avevano deciso si mostrare i lineamenti del problema nel 2008, dopo un trentennio di frequentazione. Perrella, dal canto suo, aveva organizzato un discorso solo apparentemente monotematico in un libro del 1999: Dialogo sulla pittura (edizioni Arché ipotesi). Bianchi, infine, il quale ha in preparazione con Luca Biscontini un libro sul cinema di Carmelo Bene e uno studio sul montaggio in Pasolini, stringendo insieme due linee di ricerca (cfr. le riviste ‘Il volo del gabbiano’ e ‘Cultura edintorni’), una sulla pittura che egli prosegue da tempo con l’associazione Terra d’Arte, un’altra sulla musica con l’associazione Assisi Suono Sacro, continua la rivisitazione del progetto sulla sintez iskusstva del monaco russo Pavel Florenskj, che fu anche un tentativo di chiarire i risultati artistici del musicista Alexander Scriabin e il senso di una ripresa del progetto wagneriano delGesamtkunstwerk. Perché, dunque, un dialogo sulla pittura? E qual è il suo senso in rapporto al problema del film, l’immagine, la parole, il montaggio? L’opera d’arte ‘nasce’? Viene alla luce? Se sì, qual è il rapporto con chi la guarda, eventualmente senza nemmeno volerlo, come per una svista, e di che luce si tratta in questo sguardo, o in quell’ascolto? Il docufilm è impreziosito da un’intervista sulla pittura rilasciata recentemente dal critico d’arte Gillo Dorfles, meno noto per essere oltre che psichiatra, e pittore egli stesso, anche poeta e ‘musico’ si direbbe con Platone, come ha recentemente chiarito Luca Cesari (Gillo Dorfles, musica e poesia: tonale o timbrico?, introduzione a G. Dorfles, ‘Poesie 1941-1952’). L’importanza del documento sta nella relazione tra una certa disattenzione all’arte non accademica derivante, nella diagnosi degli autori di questo film, dal pregiudizio soggettivistico tipico della psicologia contemporanea che si pretenderebbe fondata in senso statistico. Una nuova psicologia si profila all’orizzonte, che già Pasolini, o meglio la lettura pasoliniana della psicoanalisi delle origini, evidenziava attraverso alcuni risultati artistici. L’antipsichiatria da sola non basta, se non si riconosce nello stesso movimento di abbandono di un terreno anche antipsicologia. Se la psichiatria, oggi agonizzante, non si fa antipsicologica morirà, e non potrà cogliere dell’arte tutta la sua fragilità, e non avrà occhi per sentirla, e orecchie per distanziarsene a cortese distanza, e a coglierla come potenza involontaria, e meno come volontà.
SULLA PITTURA
di Ugo Amati
Stasera presenterò a Santarcangelo alla Celletta Zampeschi un “docufilm” intitolato L’incantesimo della creazione, da me realizzato assieme a Michele Bianchi, dedicato al rapporto che l’arte intrattiene con la follia. La parola “docufilm” non mi piace, ma se dicessi documentario sarei impreciso e lo sarei ugualmente se parlassi di un film vero e proprio. A volte le parole mancano e si deve ricorrere a qualche neologismo. Ma tutto ciò ha poco interesse e non è il caso di insistere. Ciò che mi preme è dire qualcosa sulla pittura che riprenda il dialogo da me iniziato con Oscar Piattella, un artista con cui mi confronto da una quarantina d’anni, che sarà presente sabato sera alla presentazione. L’amico Oscar tesse la sua tela con la stessa dedizione con cui un monaco ortodosso medioevale dipingeva le sue icone. La sua presenza domani a Santarcangelo mi dà l’opportunità di continuare questo confronto di fronte al pubblico. C’è una domanda che mi sono sempre posto che intendo riproporre: la pittura di oggi è ancora pittura o filosofia, vale a dire pensiero sulla pittura, smontaggio e comprensione articolata del fare pittorico? Monet e Picasso non potrebbero essere considerati filosofi, prima ancora che pittori? Gli artisti dalla metà del secolo diciannovesimo in poi sembra che abbiano dipinto per meglio riflettere su ciò che facevano, per cui non è improprio considerarli filosofi. Nelle nostre città ci sono musei dove ammirare le opere del passato e gallerie d’arte contemporanea dove non mancano le guide per dirci tutto sul loro significato. La storia dell’arte ha raccolto tutto il materiale possibile sulle arti figurative di qualunque popolo in qualunque tempo. Splendidi volumi illustrati e cataloghi prestigiosi fanno da corredo. Ma siamo sicuri che oggi si sappia cosa sia veramente essenziale in un dipinto? Oggi ci sono più pittori di un tempo, ma tutto è cambiato sia nella loro tecnica, sia nel significato e nella funzione delle loro opere, senza dubbio anche a causa del diffondersi della fotografia. Se cancelliamo la storia dell’arte fino a Ingres qualche dubbio circa un quadro come Guernica di Picasso o più ancora come La Fontaine di Duchamp ci viene. Sono opere d’arte o altro, cioè pensiero, ideologia, filosofia? Un tempo le chiese e le città erano piene di opere d’arte, ora ci sono solo avanzi. Fin quando gli Uffizi appartenevano ai Medici erano vivi e attraenti, visitabili come le chiese con le loro magnifiche opere, oggi lo sono assai meno. Quando Giorgio Vasari scriveva le sue Vite lo faceva perché con Cimabue e Giotto l’arte era riemersa dalla decadenza medioevale per raggiungere il vertice con Michelangelo, Raffaello e Tiziano. Questo progresso aveva stabilito una volta per tutte quale fosse la “maniera” della buona pittura. Dopo questi giganti i pittori non sono scomparsi, ma è indubbio che se si legge la Storia dell’Arte Italiana di Giulio Argan ci si rende conto che si dispiega sotto i nostri occhi un’avventura dello spirito molto diversa da quella descritta dal Vasari. Per Argan ogni pittore, nel corso di un millennio, avrebbe elaborato e risolto pittoricamente un problema essenziale, che però non era affatto pittorico, ma appunto di pensiero, perché avrebbe modificato il modo in cui venivano considerati lo spazio e il tempo, vale a dire quelle “forme pure dell’intelletto” che non sono universali e neutre come credeva Kant. Fra Vasari e Argan si è prodotto un profondo mutamento del modo in cui viene pensata la pittura. Nel suo trattato c’è di tutto, ma nessun accenno su quei problemi tecnici dei quali invece Vasari si occupava con attenzione. La maggior parte degli storici dell’arte ha sempre ignorato che la pittura è prima di tutto, un’umilissima pratica nella quale sapere come – e se – due diversi pigmenti possono venir mescolati. L’interrogarsi sui destini dell’umanità è secondario, ma evidentemente non lo è per chi non ha mai preso per mano un pennello. Picasso diceva che, da bambino, dipingeva come Raffaello, e che aveva impiegato tutta la vita per imparare a dipingere come i bambini. Ha fatto bene? Ha fatto male? Questa inversione di rotta è sicuramente servita alla storia delle idee, ma non è detto che abbia fatto del bene alla pittura, perché ha contribuito a far dimenticare per sempre quel poco che restava, all’inizio di questo secolo, dell’antico sapere dei pittori. E poiché siamo a ridosso del Natale, una qualche riflessione sulle icone, quindi sull’arte in oriente, dove l’evoluzione di cui dicevo non ha avuto luogo, merita di essere fatta. Le icone ci inducono a considerare la pertinenza dell’immagine al sacro. Se la pittura bizantina è importante per comprendere la pittura in generale, non è perché tutti i pittori devono mettersi a dipingere icone, ma perché un’immagine, comunque venga eseguita, fa durare una percezione per un tempo illimitato. Ciò che è fuggevole e caduco viene fissato per sempre. L’eternità dell’immagine non è prodotta dall’eternità dell’oggetto pittorico. Gli affreschi di Giotto e i dipinti di Tiziano che furono distrutti da due incendi, a Padova e Venezia, non erano meno eterni di quelli che si sono conservati fino a noi. Si dipinge per la gloria di Dio. L’arte occidentale apre delle scene alla nostra visione; nell’arte bizantina, invece, sono i santi dipinti sulle icone che guardano noi che li guardiamo. A mio avviso c’è qualcosa di iconico nell’arte di Oscar Piattella di cui sarà esposto un quadro. E se ho anticipato tutto questo è per vederlo dialogare non tanto con me ma con Michele Bianchi, coautore del docufilm, il quale è un cultore di Pavel Floreskij secondo il quale la pittura di icone, essendo sovra-temporale, è spiritualmente superiore ad altre forme espressive. Un’immagine di Cristo non rimanda a Cristo, ma va oltre in una assolutezza che è di per sé figura dell’eterno. Si dirà: ma l’arte dei folli in tutto questo? Di essa si dice nel filmato, un ottimo pretesto per riflettere sul senso del dipingere, ammesso che, a parte i matti, si dipinga ancora.