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Quando la natura parla: Alessandro Bernard e “Il Codice del Bosco”
Al Cinema dal 5 Maggio
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21 ore agoon
Presentato in anteprima internazionale al 73° Trento Film Festival, Il Codice del Bosco è un film che oltrepassa i confini del documentario scientifico per diventare una riflessione poetica sul rapporto tra uomo e natura. Diretto da Alessandro Bernard e Paolo Ceretto, il film segue due scienziati non convenzionali che cercano di decifrare il linguaggio segreto degli alberi, tra dispositivi avveniristici e intuizioni ancestrali. Immerso nei boschi feriti della Val di Fiemme, Il Codice del Bosco è un viaggio visionario tra scienza, spiritualità e crisi ecologica, in una delle sezioni più attese del festival dedicato alla montagna.
In un’epoca in cui la crisi climatica viene spesso raccontata in modo diretto e didascalico, voi avete scelto un linguaggio più evocativo, simbolico, a tratti quasi mistico. Cosa vi ha guidati verso questa scelta narrativa e quale tipo di coinvolgimento emotivo speravate di generare nello spettatore?
Ci ha guidati, sostanzialmente, il tempo del bosco ed il tempo della scienza nel suo divenire. Quindi noi ci siamo trovati inizialmente da osservatori – come è giusto che sia all’inizio – in una condizione molto, molto sospesa.
Quando hai il tempo per pensare, emergono cose che non sono lineari, che non sono didascaliche: recuperi il tempo per poter approfondire. È venuto quindi naturale andare a ricercare anche tratti più tradizionali, più mitologici, allegorici, per aprire alla possibilità di vivere questo cambiamento. Non è solo una questione dichiarativa, non sono solo numeri o gradi: ci sono delle conseguenze che, spero, nel nostro film – nel suo piccolo – risultano estremamente visibili.
Noi siamo arrivati lassù quando il bostrico non aveva ancora intaccato la zona dell’esperimento. Nel giro di pochi anni, però, a causa dell’innalzamento delle temperature, l’insetto tipografo è arrivato anche lì, moltiplicandosi con facilità. È come se fossimo stati testimoni oculari del cambiamento. E credo sia molto più interessante – soprattutto oggi, dove si parla tanto – far percepire questa cosa, più che spiegarla.
Nel film “Il codice del bosco” convivono due tensioni fortissime: da un lato l’approccio scientifico di Chiolerio, dall’altro quello intuitivo e visionario di Gagliano. Come avete affrontato la sfida di raccontare questi due mondi senza farli collidere, ma anzi facendoli dialogare poeticamente sullo schermo?
Monica Gagliano è, sì, una scienziata sui generis, ma sempre una scienziata. Conosce i tempi, le procedure e le modalità della scienza, diciamo classica.
Alessandro Chiolerio, pur essendo uno scienziato delle scienze dure – lui è uno “smanettone”, un hacker, sostanzialmente – ha anch’egli una forte inclinazione all’ascolto. Queste due strade, in qualche modo, convergono naturalmente l’una verso l’altra.
Certo, ci sono stati e ci saranno momenti di frizione, ovviamente. Ma non è stato così difficile come si potrebbe pensare, perché la finalità era comune.
La componente più “mistica”, o sciamanica, che Monica ha portato nella scienza è semplicemente un’altra forma di scienza: forse più antica, meno raffinata dal punto di vista tecnologico, ma anch’essa alla ricerca di un contatto, di un dialogo.
Chiolerio, con le sue macchine, cercava e cerca tuttora – perché l’esperimento è ancora in corso – un contatto. Quindi sì, è stato abbastanza naturale. Ovviamente, bisogna desiderarlo.
Il film non si limita ad osservare, ma ascolta. La bioacustica vegetale è un elemento centrale nella narrazione. Come avete lavorato sul paesaggio sonoro?
È una cosa a cui tengo molto, personalmente, anche perché realizzo spesso podcast per la radio: è un ambito che mi è naturalmente vicino. Hai usato la parola giusta: ascolto. L’esperimento era, appunto, un esperimento di ascolto. Anche nel finale del film c’è, a mio avviso, una bellissima dichiarazione nelle note vocali di Alessandro Chiolerio: anche lui si appuntava pensieri solo audio sul telefono, per tenere traccia del delirio che viveva durante l’esperimento.
E in quelle note dice:
“Bisogna ascoltare. Bisogna mettersi in ascolto.”
E quindi, anche noi, ci siamo messi in ascolto. Quando osservi e hai tempo, cominci a comprendere che tutti quei suoni che ti circondano – suoni di grande importanza – risuonano dentro di te, così come risuonano negli esperimenti di bioacustica. Abbiamo iniziato a collezionare campioni, ovviamente: suoni ambientali, suoni del bosco. Siamo arrivati ad utilizzare anche microfoni laser per raccogliere campioni sonori, cercando di cogliere tutte le dimensioni possibili e immaginabili.
Il montaggio, a quel punto, è stato naturale: volevamo restituire quella dimensione sospesa, ma ricchissima. E spero che questa componente aiuti a riavvicinarsi al tema con una comprensione diversa, non solo ecologica, ma anche filosofica. Questo film è anche questo: far percepire che una possibilità di cambiamento esiste. Sì, l’audio è stata una componente molto, molto importante per, raggiungere questo obiettivo.
La bioacustica – intesa come somministrazione di suoni – è un lavoro che Monica porta avanti da molti anni. C’è una parte del film che riguarda proprio questo tentativo: valutare le reazioni delle piante alla somministrazione di suoni particolari, anche aggressivi, per verificare se esistono comportamenti di risposta, come avverrebbe negli animali. Sono studi che ormai – non dico che siano classici – ma stanno conducendo molti scienziati nel mondo. Monica è stata una delle prime a insistere sulla possibilità che esista una comunicazione sonora interspecie. Ovviamente, un bostrico, come un uomo, non è una pianta. Ma forse, in qualche modo, si può trovare un ponte.
In Val di Fiemme la monocoltura, le segherie, l’intervento post-Vaia sono pratiche concrete. Ma dove finisce la cura e inizia il controllo? Il film “Il codice del bosco” suggerisce che spesso le due cose si sovrappongono. Come vi siete orientati, da autori, tra questi concetti?
È una domanda molto bella, e molto complicata. Ci hanno aiutati tantissimo gli uomini e le donne che si prendono cura di quel bosco – e in generale chi si occupa di selvicoltura. Il limite tra gestione e cura è oggi estremamente sfumato. È molto complesso, in società che basano la loro economia sul legno, capire dove finisce una e dove inizia l’altra.
Una cosa però la voglio dire: sono assolutamente sicuro che quelle persone amano i loro boschi. Gestirli significa anche curarli. Lo so, è un po’ un gioco di parole, ma è davvero tutto molto compenetrato. La sfida che si trovano ad affrontare è estremamente complessa. Il bosco, e poi il bostrico, hanno generato grossi problemi sia dal punto di vista gestionale che di cura. Nel film si vede come ci sia un continuo monitoraggio del territorio, per cercare di bloccare l’infestazione da una parte, ripiantare da un’altra, capire cosa piantare.
È evidente che la monocoltura non è stata una grande idea. Ma è servita per altre ragioni. Oggi, almeno in Val di Fiemme – ma penso anche in molte altre zone – la cura viene posta con una nuova consapevolezza. Il messaggio è stato recepito: non possiamo più esagerare. Oggi si aiuta il bosco a ricominciare su basi più solide, con più biodiversità. E questo, alla fine, potrebbe dare vita a boschi più forti di quelli monoculturali.