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Festival Cinema Africano, Asia e America Latina

Immagini e immaginazione tra i fantasmi di ‘Khartoum’

Un collettivo di registi sudanese sperimenta con la tecnica e il linguaggio per raccontare quattro storie di guerra, ricordi, fuga e dolore in un esperimento imperfetto ma necessario, potente e prezioso, ritratto di una Khartoum ferita e sola, di cui nessuno parla

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Khartoum fescaaal

Khartoum, presentato in anteprima al Sundance e successivamente alla Berlinale 2025, è tra i film selezionati al 34esimo FESCAAAL, festival del cinema Africano, d’Asia e America Latina. Un festival che da oltre trent’anni prosegue nella sua missione di far conoscere le opere più interessanti del cinema dei tre continenti al mondo occidentale, spesso troppo egocentrico e pigro di fronte ad un cinema sempre più globale e a storie che meritano di essere raccontata.

Khartoum è un film che nasce da un’ambizione precisa e condivisibile: raccontare la vita quotidiana nella capitale del Sudan attraverso quattro storie intrecciate, in un momento in cui il paese sembrava sospeso tra memoria e possibilità. Tuttavia, la guerra civile scoppiata improvvisamente nell’aprile 2023 – combattuta tra l’esercito regolare e le famigerate Forze di Supporto Rapido (RSF), trasforma in corsa il progetto: da documentario poetico a testimonianza di sopravvivenza.

Il film, supervisionato da Phil Cox. è un’opera collettiva, firmata anche da quattro giovani autori sudanesi: Anas Saeed, Rawia Alhag, Ibrahim “Snoopy” Ahmad e Timeea Mohamed Ahmed, alcuni dei quali non solo registi, ma anche soggetti protagonisti della fuga documentata nel film. Una nota personale e commovente: dopo l’evacuazione in Kenya, la regista Rawia Alhag è diventata tutrice legale dei due bambini ritratti nel film, un dettaglio che sottolinea il coinvolgimento emotivo e umano profondo di giovani registi.

Un’opera libera nelle intenzioni

Il progetto si colloca a metà strada tra documentario e sperimentazione “arthouse”. In una prima parte, i registi inscenano, in un atto teatrale, la quotidianità dei protagonisti secondo un canovaccio pre-costruito, per poi farla recitare nuovamente ai veri soggetti della storia. Questa modalità, che rimanda a una forma di mimesi documentaristica alla Kiarostami, al cinema performativo, cerca di restituire l’autenticità attraverso la rielaborazione. Quando la guerra scoppia e la troupe fugge in Kenya, il linguaggio del film cambia drasticamente: green screen, animazioni, interviste e inserti digitali si mescolano per dare forma ai ricordi, producendo un’opera ibrida che documenta il trauma che prevale sulla realtà.

A livello concettuale, questo continuo spostamento di registro potrebbe risultare stimolante. Ma nella pratica, Khartoumappare spesso sbilanciato e stilisticamente fragile. Le quattro storie principali – l’impiegato statale, la venditrice di tè, l’attivista di quartiere e i due bambini di strada – sono ricche di implicazioni sociali e culturali, e ciascuna meriterebbe un film a sé. Ma il montaggio non sempre riesce a restituirne la profondità, sacrificandole a favore di un mosaico narrativo che resta frammentario. Le emozioni emergono più dal contesto e dall’estrema umanità dei protagonisti, piuttosto che dalla costruzione drammatica.

Certe volte la tecnica è superflua

Il film è stato interamente girato con iPhone donati da Apple e purtroppo si vede, a tratti in modo quasi doloroso. L’uso di dispositivi mobili non è un problema in sé, si pensi a Tangerine o Une Colonie, ma lo diventa quando le immagini risultano poco curate. D’altra parte, come commenta lo stesso Phil Cox, “il viaggio e gli errori sono più interessanti della destinazione” e dal punto di vista umano, di significato intrinseco, il più giusto tramite il quale analizzare Khartoum, non fa una piega. Lo spettatore più esigente potrebbe percepire l’opera come un “video YouTube con pretese”, dove la spontaneità scade troppo spesso in sciatteria visiva ma, ripeto, non dev’essere questo il caso.

In questo senso, il film con la sua natura di “prodotto” generato da un ecosistema di realtà che aiutano i sudanesi (ONG, progetti internazionali, fondazioni culturali), piuttosto che come opera pensata per i circuiti cinematografici, dà la sensazione che la forma filmica sia venuta dopo l’urgenza del contenuto. e in molti casi gli autori sono comprensibilmente interessati anche a documentare il loro viaggio personale oltre che a costruire un discorso coerente su un Sudan tristemente indecifrabile. Distinguere quindi le due cose, arte e necessità, è quantomai necessario per commentare consapevolmente Khartoum.

Simbolismo per tradurre il mondo

Tra le caratteristiche più solide del film c’è l’uso ricorrente delle metafore, come il cammello che gira all’infinito: un simbolo ciclico che vuole rappresentare l’instabilità cronica del Sudan, tra colpi di stato, governi provvisori, lotte intestine e ritorni all’oppressione. È un’immagine potente, abusata, volutamente, dalla sua ripetizione didascalica.

Non mancano poi riferimenti visivi e stilistici al cinema sudanese degli anni ’70, inseriti con un certo gusto, a volte tramite found footage, a volte come citazione da parte degli autori. Sono momenti preziosi, ma sporadici. Avrebbero potuto rappresentare un filo rosso più solido, un dialogo intergenerazionale tra passato e presente cinematografico sudanese. Delle curiosità per cinefili, certo, ma in grado di radicarsi nel corpo del film, caratterizzandolo.

Khartoum è un film profondamente sincero, necessario in un’epoca in cui i racconti africani rischiano di essere ignorati o filtrati solo dai media occidentali. È un gesto di resistenza culturale, un atto di testimonianza collettiva. Da un punto di vista cinematografico resta forse un’opera incompiuta, ma la sua genesi e le sue intenzioni sono più che sufficienti a giustificarne il valore artistico e sociale.

quindi Khartoum è, in definitiva, un oggetto liminale, non del tutto cinema, non del tutto reportage, non del tutto performance. Chi lo guarda con il cuore aperto troverà momenti di grande umanità; chi lo guarda con l’occhio del critico potrebbe uscirne frustrato. Non perché il film è “sporco”, ma perché è incoerente. Perché alterna intuizioni poetiche a lunghe parentesi ridondanti. Forse, in fondo, non è possibile trasformare davvero l’urgenza del reale in forma cinematografica.

Eppure, come accade con certi lavori imperfetti ma vitali, Khartoum ha una sua importanza viscerale, è il tentativo di fare cinema mentre il mondo intorno brucia. E forse, anche solo per questo, merita di essere visto.

Taxidrivers al FESCAAAL 2025

Khartoum

  • Anno: 2025
  • Durata: 78'
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Sudan
  • Regia: Phil Cox, Anas Saeed, Rawia Alhag, Ibrahim Snoopy Ahmad, Timeea Mohamed Ahmed