Aureliano Amadei ripercorre le sue origini, a partire dalla sua testimonianza e di quella degli altri “nipoti dei fiori” che, come lui, hanno dovuto sottostare alla scelta di una vita non convenzionale da parte dei genitori. Il suo terzo lungometraggio, il documentario I nipoti dei fiori (2024), passato in concorso alla 25° edizione del Sudestival, è un racconto corale intimo e familiare attraverso cui i ricordi di una generazione restituiscono una prospettiva inedita sulla controcultura hippie.
Distribuzione Cinecittà Luce dal 26 Maggio.
Il mito del viaggio
Le famiglie che negli anni ’70 aderivano alle comunità di figli dei fiori, appartenevano prevalentemente alla borghesia. Dall’Italia all’India in autostop, passando per l’Afghanistan; ospiti di famiglie locali marocchine o brasiliane; dal Canada al Perù. Nel ricchissimo immaginario dei nipoti dei fiori coesistono il pantheon indù e il Libro tibetano dei morti, lunghi viaggi attraverso il Sahara in condizioni estreme, così come la scena artistica degli anni ’80: Pazienza, Tamburini e Freak Antoni.
Da questi viaggi in giro per il mondo i nipoti dei fiori ereditano i loro insoliti nomi: Hiram come l’architetto del Tempio di Salomone, ma anche Ram, Yesan, Icaro, Arco, Amaranta, Tzaddi.

Fotogramma del documentario ‘I nipoti dei fiori’ (2024)
La comune come sostituto della famiglia nucleare
Il superamento della famiglia tradizionale fu uno dei fondamenti del movimento hippie. Genitori-adolescenti che crescevano i propri figli al limite tra estrema libertà e incoscienza. Condizione che, come sostenuto dalla maggior parte degli intervistati, ha comportato una precoce responsabilizzazione di questi bambini. Un senso di auto-responsabilità che talvolta è sfociato nella difficoltà di porsi dei limiti.
Il film apre il dibattito sul significato di “età adulta”: il raggiungimento della maturità corrisponde allo sviluppo di un senso di responsabilità di sé, così come nei confronti dei propri genitori-adolescenti? Una delle differenze tra i nipoti dei fiori e i loro “normali” coetanei si trova nel capovolgimento del rapporto genitori-figli.
L’autonomia e il senso di responsabilità dei nipoti dei fiori era sicuramente fuori dal comune, come ricorda Camilla: “Ti svegliavi la mattina e controllavi che il tuo genitore respirasse; una volta preso coscienza di questo, scavalcando i corpi, andavi in cucina a cercare qualcosa per fare colazione”.
Amaranta racconta della sua solitudine di bambina: “Adesso tu non lasceresti mai un bambino di otto anni in casa da solo, di notte”. Una solitudine però mitigata dall’ambiente creativo in cui era immersa: “Mio padre ha fatto il fotografo, il regista, il produttore musicale, l’editore. Abbiamo vissuto in dei contesti in cui l’arte e la cultura erano molto presenti”. Per lei – come per molte persone nelle varie controculture – l’arte assumeva un ruolo salvifico, elevata a vero e proprio esercizio spirituale.
Dalla rivoluzione del consumo all’era digitale
Ram riflette su quali possano essere le basi di questo netto rifiuto della società occidentale da parte dei figli dei fiori: “Loro hanno vissuto una rivoluzione che magari è pari a quella che viviamo noi come genitori dell’era digitale”. Nel secondo dopoguerra, l’identificazione del benessere con il possesso di beni di consumo e l’ascesa della società dei consumi potrebbero aver contribuito a una frattura nei valori tradizionali della società occidentale. È qui che idealmente potrebbero trovarsi i nipoti dei fiori: nel mezzo tra l’eredità anticonsumista e una forma di diffidenza nel processo di digitalizzazione.
“Farsi un acido era quasi un obbligo morale”
Nell’eredità culturale dei figli dei fiori l’uso di droghe può dirsi fondamentale. Gli standard di libertà della comunità hippie erano difficili da superare, ma il movimento rave lo rese possibile. I rave party mantennero viva la pratica della psichedelia; se ne può parlare – come dal titolo di un libro di Tobia D’Onofrio – come dell’ultima controcultura.
“Il movimento techno era una bella commistione tra una visione punk della vita e uno spirito hippie del quotidiano”.
Dal punto di vista dei nipoti dei fiori, il movimento hippie è vissuto come un limite da superare; la reazione dei figli dei fiori alla rivoluzione del consumo non sembra poi così dissimile dal recente desiderio di “ritorno alla natura” emerso durante la pandemia. Chi persegue un ideale si scontra inevitabilmente con la disillusione altrui. Se nella seconda metà del Novecento questa dinamica seguiva spesso una logica generazionale – con i più giovani portatori di ideali in contrasto con gli adulti, più disincantati –, oggi i confini tra idealismo e disincanto appaiono più sfumati. La mancanza di controculture di “opposizione” alla tendenza culturale predominante è sostituita da un’accozzaglia di definizioni che sembrano assumere sfumature diverse a seconda di chi dà loro voce.
I nipoti dei fiori, oggi genitori a loro volta, si chiedono quanta della libertà che hanno vissuto debbano lasciare ai propri figli. L’ombra del conformismo, ottenebrante nemico della libertà culturale, si scontra con la paura di far rivivere ai propri figli i sentimenti di esclusione ed emarginazione che hanno caratterizzato la loro infanzia e adolescenza.
Editing Giulia Radice.