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Trieste Film Festival

“Termini”, il documentario ‘circolare’ di Laila Pakalnina

Il film della cineasta lettone, inserito nel Concorso Documentari del Trieste Film Festival, crea suggestioni forti sul piano formale restando di fondo inerte nel suo svolgimento

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Elegie in bianco e nero di ieri e di oggi

Non è certo la prima volta che Laila Pakalnina si avvale del bianco e nero per creare suggestioni estetiche di notevole impatto. La navigata cineasta lettone, attiva tanto nel cinema di finzione che in ambito documentaristico, proprio a Trieste aveva portato nel 2016 Ausma, fosca parabola cinematografica in cui il ricorso al bianco e nero e a certi stilemi risultava oltremodo corrosivo, graffiante, nei confronti di temi un tempo cari alla propaganda sovietica.
Ritroviamo tale scelta stilistica anche in Termini (Gala punkti, in lettone… che starebbe poi per “capolinea”), l’opera selezionata quest’anno per il Concorso Documentari del Trieste Film Festival. Ma se il rigore formale della Pakalnina ne esce ulteriormente confermato, una sensazione di staticità dell’impianto diegetico e di meccanicità finisce comunque per affacciarsi, sull’esito complessivo di questa singolare operazione cinematografica.

La circolarità del viaggio

Girato alla periferia di Riga, perlustrando anche la trafficata zona dell’aeroporto, Termini pone l’accento sui luoghi di transito, sui mezzi di trasporto, costruendovi intorno una piccola odissea dello guardo che ha nel concetto di “circolarità” il proprio cardine. L’approccio registico è infatti al limite del mero esercizio di stile. Lunghissime carrellate, inesorabili panoramiche immancabilmente riportate al punto di partenza, vengono qui a costituire quel puntuale strumento espressivo attraverso cui la regista si pone in relazione coi passeggeri di tram, corriere e altri mezzi pubblici, ripresi mentre attendono al capolinea o in altre aree di sosta.
Ciò che ne consegue è innanzitutto a livello visuale un progressivo, continuo spostamento laterale della macchina da presa, che si estende persino alla configurazione dei titoli di coda. In tal modo la ricognizione degli ambienti in questione (e dei personaggi, anonimi, che li percorrono) prosegue come “in loop”, producendo un effetto quasi ipnotico.

Ipotesi sulla natura di un “non luogo”

Privata di qualsiasi rivelante coordinata spazio-temporale, la geografia dei luoghi di transito così articolata da Laila Pakalnina ci appare in guisa di “non luogo“, stando alla fortunata espressione coniata dall’antropologo francese Marc Augé nel saggio “Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité”, (1992).
Ciò avrebbe potuto però spingere la regista a rompere occasionalmente lo schema, inserendovi qualche deviazione paradossale e rivelatrice, assecondando qualche inaspettata epifania del “reale”. L’impalcatura eccessivamente rigida, statica e ripetitiva del documentario evita invece che ciò accada, precludendo tali possibilità e rendendo infine un po’ inerte la visione del film.

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