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‘Il mio nome è Battaglia’: fotografia e vita

Lo sguardo, la professionalità e l'umanità della fotografa palermitana

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il mio nome è battaglia

Il mio nome è Battaglia disponibile su Raiplay ripercorre la vita personale e professionale di Letizia Battaglia. Fotoreporter e fotografa palermitana, scomparsa nel 2022, Letizia Battaglia è divenuta nota per aver immortalato momenti storici del nostro Paese, specie in riferimento alla lotta delle istituzioni contro la mafia.

Tra passato e presente: le motivazioni dell’agire

Il mio nome è Battaglia di Cécile Allegra porta in scena la figura e la personalità di Letizia Battaglia in maniera estremamente diretta e assai poco artificiale. A parlare, spesso, è proprio lei, in prima persona. E quando questo non accade, sono i nipoti Marta e Matteo a prendere la parola, insieme agli amici più cari della fotografa.

Un coro di voci che dà vita ai ricordi, a testimonianze inedite, a schegge di realtà. A partire dall’infanzia di Letizia, vissuta negli anni Quaranta del secolo scorso, in Sicilia. La sua giovinezza all’insegna della libertà personale negata, e perciò perduta, di sogni infranti e di desideri repressi, in un contesto economicamente depresso e culturalmente arretrato.

La direzione narrativa di Allegra è chiara, e segue fedelmente le parole della sua protagonista: Letizia voleva scappare, essere libera, indipendente, capace di costruire la sua vita in maniera autonoma.

Il mezzo è quello della fotografia. Attraverso la propria macchina Letizia è stata in grado per la prima volta di inquadrare se stessa, e quindi successivamente di guardare verso altri. Ha potuto – finalmente – uscire da casa e accedere al mondo. Osservare, scrutare, indagare: tutto ciò che in precedenza le era stato negato. E la realtà si piega al suo sguardo, che può ora modellare, conferendo al mondo circostante un respiro nuovo.

“Lei si allontanava, si avvicinava, aggrediva il soggetto e veniva fuori una storia”

L’incontro con le persone

Attraverso la fotografia, Letizia Battaglia può per la prima volta nella sua vita incontrare l’altro, in questo caso la gente della città di Palermo. Le sue fotografie spesso ritraggono donne sole, povere, che piangono; bambini orfani, affamati; uomini violenti, criminali. Singole persone, a cui per motivi diversi, nel corso della vita, è stato sottratto qualcosa.

E Letizia si percepisce come una piccola parte di tutti loro. Sineddoche narrativa di uno strappo più doloroso e più cruento, quindi antico, quello di un’infanzia difficile, perché priva della sua componente di lietezza. È la stessa Letizia ad ammetterlo: non ha mai smesso di fotografare la sé bambina, che in qualche modo vede e rivede continuamente nei soggetti che sceglie. Perché in loro riconosce l’umanità spezzata, interrotta, dai fatti improvvisi e violenti della vita.

Le persone che Battaglia incontra nel proprio cammino di fotografa sono tante e diverse: dalle donne in ospedale psichiatrico, ai criminali mafiosi, alle persone comuni. Da tutti loro è attratta, per sentimenti antitetici di repulsione ed empatia.

Sono dunque le emozioni a guidare il lavoro artistico di Letizia, che chiama a raccolta mente e cuore al fine di esprimere se stessa al massimo grado delle sue competenze. Solo quando gli occhi di Letizia incontrano quelli del suo interlocutore o della sua interlocutrice, è possibile scattare la foto, perché si è creata una forma di comunicazione, che va oltre l’immagine, pronta a restituire un mondo di emozioni e di storie nascoste.

Il triangolo narrativo: Palermo-mafia-fotografia

Il mio nome è Battaglia è costruito su un’asse narrativo di cui i tre elementi cardine sono la città di Palermo, l’azione della mafia e lo scudo della fotografia. Tali elementi sono inseparabili, e lo sono stati in primis nella vita della protagonista.

Letizia Battaglia è divenuta nota per aver immortalato momenti, persone, azioni di mafia. Come l’omicidio di Piersanti Mattarella, fratello di Sergio Mattarella, a Palermo, il 6 gennaio 1980. Ed ancora per la famosa immagine nella quale Giovanni Falcone presenzia ai funerali di Carlo Alberto Dalla Chiesa, tenutisi a Palermo, nel settembre del 1982. Passando, infine, per il dolore racchiuso in un gioco di luci e ombre, sul volto di Rosaria Costa Schifani, vedova di Vito Schifani. Costui, agente della scorta di Giovanni Falcone, ucciso nella strage di Capaci.

In questo microcosmo di violenza e terrore, la semplice azione di Letizia Battaglia di posizionarsi dietro la sua macchina, è rivoluzionaria. È pura resistenza, di fronte ai fatti più gravi e minacciosi di cui la società di allora si era resa responsabile, oltre che spettatrice, e che contribuiva a perpetrare attraverso strutture sociali e scelte politiche precise.

Ed emancipazione, in particolar modo femminile. Ancora, netta presa di posizione rispetto a ciò che accade fuori, e nondimeno accettazione della propria parte di responsabilità, in quanto individuo facente parte di quel tessuto sociale. Oltre all’accettazione dei rischi di un lavoro svolto in prima linea, e spesso in solitaria.

La sensazione, immersi nel racconto che tale triangolo narrativo offre, è quasi soffocante. Sembra che nulla possa cambiare, e che ogni sforzo sia vano. Un punto di fuga verso l’esterno, però, resta, silente, ma straordinariamente forte. Sono le foto di Letizia Battaglia, che permettono un respiro più ampio, perché in esse vi è una sconfinata forma di umanità, ricchezza del singolo, che diventa luce nel segno di un futuro libero da qualunque forma di oppressione.

Il mio nome è Battaglia

  • Anno: 2024
  • Durata: 53'
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Cécile Allegra