La vita di un uomo qualunque, l’anziano del paese che osservi vagare in bicicletta apparentemente senza meta e ti chiedi “Chissà chi è, cosa ha fatto nella vita e dove sta andando con quella bicicletta?“, mostrata tramite le intime e confuse confessioni di quell’uomo che, lentamente, prende forma sullo schermo. È questo L’ultima Veglia, documentario a suo modo sperimentale, film d’esordio di Nicolò Ribolla e prodotto da Notturna Film. È stato presentato in occasione del 30 70 Doc Fest di Vittorio Veneto, kermesse inserita nel progetto di Lago Film Fest che propone opere prime o seconde di registi under 35.
Abbiamo parlato con Nicolò de L’ultima Veglia, del significato di un documentario come questo e del giovane cinema documentario italiano dal suo punto di vista.
Nicolò, qual è stato il percorso che vi ha portati alla realizzazione del film e come è stato approcciarsi al vostro torvo protagonista?
C’è stato un processo di consapevolizzazione importante. Non siamo partiti con un’idea troppo definita ma, come abbiamo imparato nel percorso, è l’anima del film che determina man mano come verranno trattati gli elementi, dalla regia al montaggio al ritmo che decidi di dare. Quindi con Teresa Bucca, la co-sceneggiatrice e montatrice, ci siamo approcciati a questo personaggio pieni di misteri, Gianni è un uomo di 73 anni che, per motivi che abbiamo scelto di non approfondire, si è ritirato a vita privata, ha deciso di isolarsi, vivere in estrema solitudine e guardare il mondo, in un certo senso, da una fessura.
A un certo punto del film Gianni dice: “Ho deciso di essere spettatore della vita degli altri, senza conoscere la mia” e questo mi affascinava, volevo capire come un punto di vista simile potesse trasformare la percezione delle cose. La vita è fatta di esperienza, prese di coscienza, perdite e conquiste ed è interessante osservare come un uomo che si è isolato da tutto e tutti, compreso se stesso, potesse trasformare la realtà che lo circonda.
In un certo senso è come scegliere di utilizzare una cinepresa piuttosto che un’altra, vedere che immagine produce quel sensore, ecco volevo vedere quale immagine creava il sensore della sua mente e quanto potesse essere distante da quella di chi vive la vita da un punto di vista più comune, normale.

L’ultima veglia (Nicolò Ribolla, 2024)
Come hai conosciuto Gianni e come sei riuscito a entrarci in contatto tanto da far sì che si aprisse con te?
Gianni vive in questo piccolo paese del Veneto che si chiama Noventa Vicentina, è il paese di mia madre. Non è un luogo che frequentavo quotidianamente, ci andavo una volta al mese o per le feste, quindi per me è sempre rimasto avvolto nel mistero, anche perché si tratta di uno di quei luoghi legati ancora a una certa forma d’invisibilità tipica del paesino sperduto. Sin da piccolo ricordo che c’era questo signore, il matto del paese, sempre in giro con la sua bicicletta, mi incuriosiva molto e intorno ai 15 anni ho iniziato ad avvicinarmici. Mi fumavo le prime sigarette con lui e poi, pian piano, l’ho conosciuto fino alla proposta di fare il film che ha accettato.
Questa è un’altra cosa che mi affascina molto di lui, perché c’è una grande contraddizione nel rapporto con la sua intimità dal momento in cui ne fa dono a qualcun altro. Questo suo isolamento mi ha portato a pensare che sarebbe stata un’impresa riuscire a entrare nella sua testa attraverso i suoi pensieri, come se ci fosse stato un muro da abbattere, eppure non è stato così, è impressionante la capacità che ha avuto nell’adattarsi a qualcosa di completamente nuovo.
In effetti è stato come scoperchiare una pentola a pressione, qualcosa che doveva scoppiare e che all’improvviso mi ha riversato addosso tutta questa vita, questa percezione delle cose che aveva accumulato dentro di se, infatti la vera difficoltà è stata poi mettere ordine, per quanto possibile, tutto quanto. È una cosa su cui ho sempre riflettuto e che mi è parsa come molto indicativa del tipo di personaggio che è Gianni. In fin dei conti questa memoria tanto ricercata, quanto rinnegata è tutto ciò che possiede.
Mentre a livello puramente produttivo, come avete lavorato alle riprese e all’intervista su cui ruota il racconto?
Non c’era budget quindi all’inizio è stato semplicemente un fatto di chiudersi con lui nella sua casa, ha accolto me e la mia ragazza, Federica Castelli, che è anche la 3D artisti dietro alcune delle immagini presenti nel film e ci siamo isolati nel suo salotto, abbiamo abbassato le persiane e ci siamo messi a parlare per ore e ore. Quindi, come dicevo prima, mi interessava scoprire come la sua mente, così rara, filtrava la realtà, e le domande che gli facevo servivano semplicemente a instradarlo verso vari temi, anche vaghi, che mi sembravano importanti.
Però una volta partito costruiva da se i suoi ricordi, erano momenti frammentati come si può vedere nel film, parlare con lui non è iniziare un discorso, è piuttosto l’entrare in un flusso che è già in corso perché lui ha un costante dialogo con se stesso, non passavo dal silenzio al racconto ma mi gettavo in questo suo fiume di parole, mi facevo trascinare cercando di non dirigerlo troppo, per evitare di forzarlo, trattenerlo dallo stimolare la sua memoria.
Gianni alla fine riconosce questi frammenti di memoria che gli appartengono e con l’atto filmico se ne libera, li trasforma in qualcos’altro. Quindi nel momento in cui questi ricordi si agganciano a qualcosa di così viscerale ed essenziale per la sopravvivenza di chi ne è coinvolto, anche l’aspetto tecnico diventa un seguire, un adattarsi a questa esigenza.

L’ultima veglia (Nicolò Ribolla, 2024)
C’è un tema di memoria, di ricordi frammentati e confusi molto centrale nel racconto, è stato difficile lavorare a un prodotto che per sua natura ha una struttura narrativa, sfruttando però questi elementi? Come vi ha aiutato l’archivio in questo senso?
Quello della memoria, abbastanza centrale nel film, è anche un tema che ha subito una profonda evoluzione a livello concettuale sulla base di come lui ci ha insegnato ad approcciarla. A un certo punto la memoria non viene più trattata come una cosa che ti appartiene, ma un qualcosa che sperimenti costantemente e su cui non hai davvero controllo, ti condiziona e per questo abbiamo deciso di metterla in discussione, è stato un lavoro di distanziamento dalla memoria e da quello che rappresenta.
All’inizio c’era quindi confusione nel rappresentare le sue memorie, anche tramite un archivio che non sappiamo se gli appartiene, di conseguenza non sappiamo se questi ricordi facciano parte della sua vita o meno ma questo è anche il viaggio che Gianni fa all’interno del film e che lo porta, alla fine, a ritrovarsi nei suoi ricordi. La parte finale è l’unica in cui vediamo immagini sue, legate ai suoi veri ricordi e che abbiamo deciso dunque d’inserire senza trattarle in alcun modo, non ci sono zoom o stacchi particolari. Quindi in un certo senso Gianni va a ritrovare la tenerezza e la semplicità dei suoi ricordi, lo fa prostrandosi davanti al letto dei suoi genitori, con cui aveva un rapporto difficile, un letto che è sempre lì, persiste.
Per quanto riguarda l’archivio abbiamo cercato di lavorare il più possibile nel tentativo di restituire un tipo di memoria che non avesse un’appartenenza, che non avesse un’identità ben precisa e che fosse abbastanza disorientante. La ricerca è stata molto ampia e, soprattutto, più che relativa all’aspetto storico, culturale, una ricerca che andasse a individuare degli agganci, dei punti in comune con il racconto all’interno di queste immagini. Tutto questo per creare un ricordo non solo suo, ma universale.
Durante la visione ho percepito molto questo tentativo di mescolare le sue memorie a quella collettiva, ricordi in cui ognuno può rispecchiarsi e altri che invece ci parlano dell’intimità del personaggio. Alla fine, dunque, qual è lo scopo de L’ultima Veglia?
Credo di non averlo mai capito veramente, sai. Una cosa sicuramente importante e che può essere considerata centrale nell’attribuire un significato a questo film è il cercare di liberare il personaggio di Gianni dallo stereotipo che probabilmente gli viene addossato, liberarlo da quell’abito, riconoscibile ma inadatto, di matto del paese, di solitario, colui a cui i bambini tirano le pietre contro la finestra. Volevamo staccarci da una narrazione che mettesse in primo piano questo tipo di figura seppur avrebbe creato una connessione senz’altro più facile con il pubblico e andare più a fondo, raccontare la realtà di un uomo che da una parte ha perso qualcosa nel suo isolarsi ma che dall’altra ci ha guadagnato, come dicevo, un punto di vista sulle cose unico. Sì, forse è proprio questo lo scopo del progetto, andare oltre quel tipo di struttura.

L’ultima veglia (Nicolò Ribolla, 2024)
Mi hai accennato che questo film è stato realizzato con poche risorse, eppure l’accuratezza con cui avete usufruito dei mezzi tecnici a disposizione lo rende un film completo ed elegante, vuoi parlare anche di questo aspetto?
Questo film è stato d’insegnamento, abbiamo talmente ridotto all’osso qualsiasi tipo di espediente o di mezzo tecnico, che ci siamo trovati di fronte a una bellissima verità, il fatto che tutto ciò che viene fatto in un film sia a livello di riprese, quindi che cosa scegli di guardare, di riprendere e non riprendere, sia il tipo di suoni che emetti dev’essere una profusione di quel qualcosa che sta sotto, che non ha a che fare con la tecnica, con il significato logico, ma con l’anima di un film, che in questo caso è il personaggio stesso. Poi tutti gli aspetti tecnici ne sono stati una derivazione, ora non voglio dire cose strane ma è come se l’anima di questo personaggio avesse fatto un suono con un gong e tutto ciò che poi è derivato è stato prenderne gli echi.
Poi, con il suono e la musica, Edoardo Vella con l’aiuto di Levi Giger ha fatto un lavoro fantastico; siamo stati nel suo studio vicino a Londra dove ha recuperato questa vecchissima fisarmonica e l’ha usata per creare tutti i suoni che si sentono nel film, quindi i venti, gli ambienti, qualsiasi tipo di suono senti è fatto con quella fisarmonica, anche la pioggia stessa è stata fatta battendo con le dita sulla cassa della fisarmonica, creando quel tambureggiare che poi diventa pioggia.
Questo discorso apre a un altro ampio argomento, ovvero cosa comporta fare un film a vent’anni e senza grosse produzioni alle spalle?
Fare un film con così pochissimi mezzi comporta il doversi completamente fidare delle persone con cui stai lavorando, perché non pagandole, non avendo con loro un rapporto totalmente professionale, ma basato interamente sulla fiducia personale e artistica di quello che si sta facendo, ti costringe a questa piccola impresa. E secondo me tutto questo torna utile anche quando ti ritrovi poi a fare cose più complesse, ti permette di sapere distinguere cosa è giusto seguire e cosa no. Penso sia una bella auto-lezione di semplicità nelle cose, che però sono forse quelle più vere.
Poi viviamo un’epoca in cui ci sono sempre più scuole di cinema, sempre più corsi, video su YouTube che ti spiegano come fare le cose, le attrezzature costano sempre meno e danno accesso a chiunque voglia fare qualsiasi cosa. Credo che tutti dovrebbero mettersi alla prova in queste condizioni. C’e però il rovescio della medaglia di questa democratizzazione, se da una parte c’è la libertà assoluta nel potersi mettere alla prova, dall’altra c’è un affidarsi eccessivamente a delle regole, a un modo di strutturare le cose, che fa perdere tanto a livello di esperienze che si possono e devono fare con il cinema.

Locandina de L’ultima veglia (Nicolò Ribolla, 2024)
In conclusione, credi nella possibilità di emergere anche da realtà più piccole solo con la forza delle proprie idee e dei propri film? Anche un documentario indipendente può avere la sua dignità e venir visto?
Io non credo nell’arte fine a se stessa per non essere vista da nessuno, non è quello il suo scopo. Si può lavorare nella direzione di veicolare le cose che fai all’attenzione degli altri, se lo fai con le giuste intenzioni e mettendoci davvero te stesso, il film è poi l’estensione dell’uomo, no? E questo non deve togliere il fatto che poi la qualità si sviluppi studiando, conoscendo, facendo esperienza, le capacità che ti permettono poi di dare la possibilità a quel prodotto che può essere un film, un quadro, un album di musica, di farlo arrivare agli altri, seguendo tutti i passaggi necessari per poterlo fare. Quello è un altro tipo di discorso, legato all’intelligenza che una persona ha nel capire come fare certe cose.
Però secondo me le due cose non devono per forza scontrarsi, si possono avere delle intenzioni personali, lasciare liberi se stessi di esprimersi e poi avere anche le capacità di saperle veicolare al giusto pubblico. Questo è un estremismo che è proprio ciò che ci porta a vedere le opere come separate, questa è per il pubblico, questa è per una piccola nicchia… Mentre invece, secondo me, è una questione di abitudine, di dove metti lo sguardo e non è tutto bianco o nero. Non penso che le persone non abbiano voglia di vedere cose viscerali, le cose forti, sincere, ci sono tanti film venduti benissimo che hanno una profondità incredibile, significa che si può ancora vendere al pubblico cose che sono diverse, semplicemente si è forse persa un po’ l’abitudine di pensare che le due cose possono andare a braccetto.