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Mentelocale. Visioni sul territorio

Valerio Lo Muzio racconta ‘Romina’ il film vincitore del Mente Locale Visioni sul territorio

La vittoria del documentario 'Romina' al Festival Mente Locale ci porta in conversazione con il suo autore e regista, Valerio Lo Muzio, che si esprime con sentite parole di ringraziamento. «Finora non avevamo mai vinto un 'miglior documentario', abbiamo avuto solo una menzione speciale della giuria, quindi fa molto piacere vedersi riconosciuti 4 anni di lavoro». Nell'intervista, Lo Muzio sente di dovere, e di volere, insistere su una questione fondamentale che del film è perno: i sogni, se non si hanno i mezzi per inseguirli, è assai facile renderli irrealizzabili

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Domenica 10 novembre il festival Mente Locale – Visioni sul territorio ha annunciato il vincitore della sua undicesima edizione: il documentario Romina, per la regia di Valerio Lo Muzio e Michael Petrolini e produzione di Fase 3. Il film, ambientato nei quartieri suburbani di Bologna tra marginalizzazione e passione sportiva, ha ricevuto 2000 € del Premio “Mente Locale – Visione Globale”.

Questo rappresenterebbe l’ultimo dei tanti riconoscimenti che Romina ha ricevuto. Il documentario, infatti, è stato vincitore anche della “Menzione Speciale della Giuria”, del “Premio del Pubblico” e del Premio “DocPoint Helsinki” al Biografilm Festival 2024. Quest’ultimo premio varrà al film la partecipazione al Helsinki Documentary Film Festival a febbraio del 2025. Altri premi sono stati quelli ricevuti alla IX edizione del festival Documentaria di Noto, quali “Premio del Pubblico” e premio al “Miglior Montaggio” nella sezione “Visioni DOC Italia”. Infine, un ultimo riconoscimento è stato quello per la “Miglior Regia” ottenuto al festival Glocal di Varese.

In occasione della vittoria di Romina al festival Mente Locale, abbiamo portato in conversazione con noi il suo autore e regista, Valerio Lo Muzio, che, dopo quattro anni di riprese, si dice soddisfatto del riconoscimento – per quanto questo sia stato, come gli altri, inaspettato.

«Non mi aspettavo nessuno di questi premi. Tutto questo ci fa piacere. Durante la prima che abbiamo fatto al Biografilm Festival di Bologna, vedere la gente commossa in sala è stato qualcosa che mi ha gratificato più di qualsiasi premio. In sala erano presenti soprattutto amici e parenti di Romina. Ma la stessa commozione si è vista a Noto, a 800 km di distanza da Bologna, dove nessuno conosceva Romina né la Bolognina Boxe. Vincere al Mente Locale è stato bellissimo. Finora non avevamo mai vinto un ‘miglior documentario’, abbiamo avuto solo una menzione speciale della giuria, quindi fa molto piacere vedersi riconosciuti 4 anni di lavoro»

Valerio Lo Muzio, oltre a essere stato alla guida registica del documentario Romina, ha co-diretto il suo primo film, Il gioco di Silvia, nel 2022, presentato in anteprima mondiale al Biografilm Festival di quell’anno.

La formazione di Lo Muzio

Lo Muzio nasce a Foggia nel 1990, si laurea in Scienze della Comunicazione all’Università di Bologna e da lì inizia un percorso di Master in Giornalismo. Questo lo porta a lavorare dapprima come giornalista per La Repubblica e, poi, come video-reporter per Il Fatto Quotidiano, Daily Mirror, Internazionale e Corriere della Sera. Il suo interesse per il cinema e il videomaking lo porta a girare nel 2021 un cortometraggio dedicato a Patrick Zaki, Waiting for Patrick (GediVisual), che partecipa al festival RiFilm. Infine, tra il 2022 e il 2024 realizza i sopracitati Il gioco di Silvia (Articolture) e Romina (Fase 3).

L’intervista a Valerio Lo Muzio

'Romina' ha vinto il premio come miglior documentario al Festival Mente Locale. L'intervista all'autore e regista Valerio Lo Muzio

Da destra: Michael Petrolini e Valerio Lo Muzio nel backstage di ‘Romina’ (immagine per gentile concessione di Valerio Lo Muzio) – Michele Lapini (fotografo)

La storia di Romina l’ho interpretata come quella di Icaro, che vuole raggiungere il sole, anche al costo di bruciarsi. Tuttavia Romina, a differenza di Icaro, si ferma prima di arrivare al sole, che è rappresentato dalla sua passione per la boxe, e ritorna sui suoi passi. Invece che inseguire la stella, resta coi piedi ben ancorati al suolo, rinuncia al suo sogno per stare vicina alla famiglia. Tu proporresti una visione alternativa a questa che ti ho proposto?

È una bella osservazione, non l’avevo mai vista così. È chiaro che si tratti di un documentario, però alla fine un minimo di drammaturgia, essendo un documentario narrativo, devi fornirla. Gli eventi che si sono succeduti sono tutti veri, raccolti nel momento stesso in cui questi avvenivano. A parte la scena delle biciclette, in cui si vede Romina che sfonda la quarta parete, il resto delle scene sono accadute nello stesso modo in cui noi le abbiamo filmate. Ma le abbiamo filmate come se fossero parte di un film.

Mi piace la tua considerazione, ma personalmente la vedo secondo un’altra ottica. La mia è forse una riflessione più semplice, relativa al potere dei sogni. Io ho avuto la fortuna di provenire da una famiglia che avesse le disponibilità economiche che mi permettessero di praticare uno sport. Questo perché sono italiano, sono cresciuto da italiano, in Italia. Per me è stato più semplice da quel punto di vista.

Al contrario, ritengo che i sogni, il sogno di Romina nel nostro caso, diventino più complessi quando nasci dalla parte sbagliata del marciapiede. Romina è un’italiana di seconda generazione, vive in un quartiere marginale, o meglio marginalizzato. Per tale motivo, spesso poter cambiare le carte in tavola è molto difficile, specialmente perché cresciamo in un contesto sociale in cui ci viene detto che realizzare i propri sogni è semplice: basta impegnarsi, imboccarsi le maniche e darsi da fare. Anche in quei casi, è vero, conta il talento, la fortuna. Ma uno, in ogni caso, ce la può fare. Invece non è così. Io credo che chi nasce in un determinato contesto di disagio, non solo nutre dei sogni spesso molto più semplici rispetto alle altre persone, ma che realizzare quegli stessi sogni non sia facile, anzi sia molto più complicato. Ecco, la boxe è una rinuncia a un sogno per Romina, perché si scontra con la realtà della vita: una vita fatta di precarietà, di lavoretti di merda a 3 euro l’ora, di marginalizzazione. Una vita fatta anche di un sistema carcerario che ingiustamente fa pagare gli errori a una donna, Berta, che aveva totalmente cambiato strada. E li fa pagare con sei anni di ritardo rispetto al reato commesso. Io ho fatto una riflessione più di questo tipo.

L’origine di Romina

Che cosa ha portato te e Michael Petrolini a interessarvi della storia di Romina?

Io ero giornalista per La Repubblica e mi fu chiesto di andare in Bolognina Boxe per intervistare Pamela Malvina, l’atleta che si vede vincere alla fine del film. Lei all’epoca aveva da poco iniziato il proprio percorso e aveva vinto i Campionati Italiani Assoluti nel 2019, in pieno Covid. Faceva anche l’infermiera, e, dato il periodo, divenne un personaggio da intervistare in quel momento. Una volta entrato in quella palestra, mi sono innamorato subito sia delle persone che l’attraversavano sia di quelle che la guidavano. Ho iniziato a dare una mano come responsabile ufficio stampa e lì è nata l’idea dal maestro Alessandro Dané di realizzare un documentario. Io all’epoca avevo appena finito il mio primo documentario (Il gioco di Silvia, ndr) e mi piacque molto l’idea.

Così, iniziai a valutare quali potessero essere i personaggi da inserire all’interno del nostro documentario e incontrai Romina. Me ne innamorai da subito. Mi sembrava una persona con una storia molto potente alle spalle e soprattutto anche la sua fisionomia mi colpì molto: era bassina, mingherlina, ma menava forte. Sul ring mostrava di avere un’altra personalità. Era una ragazza che non parlava molto, ma che trasmetteva molto con gli occhi. Quindi ne parlai subito con Michael Petrolini e lo coinvolsi nel progetto, guidando insieme a lui la regia. Io sono rimasto come autore e regista, lui invece si è anche occupato della direzione di fotografia.

Romina racconta una realtà forte, difficile e ingiusta. Com’è stata vissuta dai protagonisti? Si sono rivisti in quello che avete portato sullo schermo?

Assolutamente sì. Romina non si perde una proiezione. Avrà visto il film quasi più di me e di Michael, con lei ci incontriamo ogni volta che c’è una nuova proiezione e ogni volta è toccata da quello che vede a schermo. La madre di Romina, Berta, è molto orgogliosa, perché non è stato facile, per Romina e per la sua famiglia, mostrare la propria intimità, ma soprattutto le proprie fragilità. In un mondo in cui bisogna “apparire” prima di “essere”, in cui tutti tendono a mostrare la versione migliore di loro stessi, penso ai social, non è facile mostrare le condizioni in cui si vive, spesso precarie, spesso fatte di incertezze economiche. Loro l’hanno fatto, a mio avviso, con grande dignità e con grande senso del pudore. Non c’è un filo di vittimismo in quello che fanno. Sono artefici del loro destino.

Penso a Berta, che è una madre che ha sbagliato nella vita, che ha capito di aver commesso degli errori e che ha subito cercato di crearsi una strada alternativa. Non ha mai nascosto il suo passato ai figli, anzi trae una lezione da quello che le accade. A un certo punto del film dice: “Io ho fatto queste cose, io devo pagare”, gli errori che fai prima o poi li paghi. Questo è vero, ma solo in parte. È vero per le persone come loro, per i marginalizzati, per le persone nelle periferie delle nostre città. A loro non nulla viene perdonato, sia che passino col rosso o che facciano uno scippo, come in questo caso. Questa cosa mi ha colpito molto. Io vivo le periferie, vivo questi contesti ed è una cosa che sento come “vera”. Siamo nel Paese in cui, se una persona commette un’evasione fiscale o ruba, non finisce in carcere; mentre se rubi una gallina finisci in carcere. Questa è l’ingiustizia del sistema carcerario italiano, nel senso di “fare la giustizia”. Tornando alla tua domanda, anche Bolognina Boxe è ovviamente molto orgogliosa. Anche quella è una realtà quasi protagonista nel documentario. Appare come una casa sicura per tante persone, ma, in un determinato momento, viene a mancare, la palestra viene sfrattata. Devono allora trovare una nuova sede. La Bolognina Boxe è anche l’alter ego di Romina: rimboccandosi le maniche e impegnandosi, riescono a risollevare l’attività.

'Romina' ha vinto il premio come miglior documentario al Festival Mente Locale. L'intervista all'autore e regista Valerio Lo Muzio

Una fotografia del backstage di ‘Romina’ (immagine per gentile concessione di Valerio Lo Muzio) – Michele Lapini (fotografo)

Le riprese

Come si sono svolte le riprese del documentario? Quali sono state le difficoltà maggiori che avete affrontato nella sua realizzazione?

La produzione del film è durata più di quattro anni, tra riprese e tutto. Abbiamo passato un lungo periodo di “immersione”, stando vicini a Romina e alla sua famiglia, per abituarli sia alla nostra presenza sia alla presenza di una troupe che era alquanto minima: eravamo in tre, una camera la tenevo io, un’altra Michael Petrolini e avevamo il supporto di un fonico. Abbiamo cercato di abituare i personaggi a non guardare in camera, che è la cosa più sbagliata da fare. Il nostro obiettivo è quello di fare un documentario come stile, ma al tempo stesso renderlo in maniera narrativa, quindi evitando di far guardare in camera i personaggi. C’era la volontà di rappresentare l’ambiente senza incidere su di esso, senza far vivere la presenza delle camere. È un discorso un po’ metafisico questo che sto facendo, poiché nel momento in cui una persona accende una camera, seppur inconsciamente, sei consapevole della sua presenza. È chiaro che non è la realtà. Però, nessun documentario è la realtà da questo punto di vista. Questo esercizio di abituare i protagonisti alla troupe, secondo me, è servito. Nella resa finale, ho visto tanta spontaneità, tanta naturalezza. Per Romina io e Michael siamo diventati dei fratelli maggiori e noi la consideriamo la nostra sorellina.

Ci sono stati momenti difficili durante il film, durante i quali abbiamo pianto. Ho pianto molto nella scena in cui il fratellino Estanis viene sgridato da Romina. In quel momento la mamma non c’era, era già in prigione. Romina diceva: “Non so che cosa abbia mio fratello perché si tiene tutto dentro, non riesce a esprimere i suoi malesseri”. Il ragazzo andava male a scuola. Quando lei lo sgrida in quel modo fraterno io sono scoppiato in lacrime, insieme a me anche Michael e il fonico. Si sono verificate delle situazioni nelle quali è stato difficile non intervenire. Poi, a camera spenta, Romina stessa veniva a chiederci dei consigli sulla sua vita, non sul film. Quindi è stato un percorso che ha fatto crescere tutti; nel film si vede una crescita personale della protagonista, ma siamo cresciuti anche noi. È più quello che ha dato Romina a noi registi e a Bolognina Boxe, che non viceversa.

Tra speranze e rinunce

C’è un dialogo interessante nella seconda metà del film, quando, seduti su una panchina, Franco Palmieri, il coach più anziano che le fa un po’ da nonno, parla con Romina. Qui, lei si apre al maestro: “Vedo tutti andare avanti, mentre io sto sempre là, ferma”, e piuttosto scappa di fronte alle difficoltà. Lui le risponde: “Sei venuta a fare uno sport, la boxe, che dovrebbe darti sicurezza, anziché farti scappare”. Quella di Romina, sul finale, dove abbandona la passione in favore della famiglia, la considerereste come una fuga o una vittoria della protagonista?

Secondo me, Romina purtroppo non ha potuto scegliere. È combattuta, scappa perché costretta a non poter scegliere. Magari avesse il lusso di scegliere se fare la boxe o dedicarsi alla famiglia. È una scelta forzata. Dal momento in cui la mamma finisce in carcere, lei è sola: deve pagare un affitto, con dei lavoretti di merda, pagata tre euro l’ora, deve badare al fratellino, deve essere presente in una relazione con il proprio fidanzato. Non sceglie. Di fatto, non può concedersi il lusso di fare sport. Nonostante la realtà della Bolognina Boxe sia una realtà di palestre popolari che permette a tutti di allenarsi, al di là delle possibilità economiche, è il tempo che manca a Romina e forse anche la voglia. Deve badare a te stessa, pagare un affitto, crescere il fratello: è chiaro che lo sport viene visto come una cosa secondaria, sulla quale non si può investire più di tanto. È quello il senso del film. Si danno per scontati alcuni aspetti, mentre la vita ti sbatte delle porte pesanti in faccia. In Romina c’è anche della dignità: lei non aveva rivelato ai suoi allenatori della situazione della mamma. Dunque, gli allenatori si comportano da mentori, cercano di insegnarle qualcosa. Se li avesse avvertiti loro avrebbero evitato di lavorare tanto su di lei quando non si presentava agli allenamenti. Ed è una lezione che vogliono darle. Vogliono insegnare ai ragazzi, al di là dello sport, anche a essere delle persone responsabili nella vita. Comunque sia, una palestra popolare come quella di Bolognina Boxe non è certa di formare campioni, ben vengano questi. Ma il ruolo primario di una palestra popolare è fare del welfare sul territorio. Significa accogliere tutte le persone marginali, marginalizzate, dare loro la possibilità di redimere se stessi, di poter fare sport. Perché lo sport, secondo noi, è un altro ruolo fondamentale nella formazione di giovani individui. E una realtà come questa ti consente di farlo. Il nocciolo della questione è che, secondo me, Romina non ha scelta, deve fare così per forza. Lei avrebbe proseguito senza remore la carriera pugilistica se non fosse stato per l’arresto della mamma. Così facendo rinuncia ai suoi sogni.

'Romina' ha vinto il premio come miglior documentario al Festival Mente Locale. L'intervista all'autore e regista Valerio Lo Muzio

Fotografia del backstage di ‘Romina’ (immagine per gentile concessione di Valerio Lo Muzio) – Michele Lapini (fotografo)

Qual è stata l’impostazione del vostro documentario? È avvertibile la presenza di un messaggio di fondo, quali sono le criticità nel trasmettere tale messaggio attraverso il film?

Il nostro è un documentario di formazione, quindi racconta la storia di un’adolescente che è molto comune a tante altre. Per Romina è la boxe la sua grande passione, ma poteva essere diversa per un italiano di seconda generazione che vive in un quartiere suburbano periferico di una qualsiasi grande città. In questo caso è Bologna, ma poteva essere Roma e Centocelle, poteva essere Palermo e lo Zen. Alla fine sono storie che si somigliano tutte. È il ritratto di una generazione alla quale non è permesso sognare, perché la vita a loro non fa sconti. Abbiamo cercato di impostare un messaggio politico, che va oltre la storia di Romina. Questo è un sottotesto dalla grande orma politica, ma si traduce anche una forte richiesta di spazi. La parola “spazio” appare più volte nel film, come una “mancanza” di spazio. È una caratteristica che emerge in una città come Bologna, che si definisce “la più progressista d’Italia”. C’è una critica. Ma c’è anche la storia di Romina, che deve portare lo spettatore a interrogarsi non solo su di essa, ma anche sul suo sottotesto.

La naturalezza degli sguardi

Nel documentario si vede la spontaneità di cui parlavi prima, negli sguardi dei personaggi e nelle situazioni che si succedono una dopo l’altra davanti alla camera. Come si è originata questa naturalezza?

Secondo me sono personaggi veri. Non hanno accentuato un minimo della loro personalità per strizzare l’occhio alla camera, sono sempre stati fedeli a se stessi. Sono veramente ancorati alla realtà che vivono. Romina non poteva mostrarsi diversa da quella che è, avrebbe mentito a se stessa e a tutti quelli che poi lo avrebbero guardato il documentario. Allo stesso modo, Alessandro o Franco Palmieri o la mamma, sono così come li vedete nella vita reale. Le difficoltà sono state altre. All’inizio non avevamo risorse per fare questo documentario, abbiamo investito soldi di tasca nostra, insieme alla produzione Fase 3. Il fonico  ci ha dato una mano, ma non sapeva se sarebbe stato mai pagato o meno. Ciononostante, tutti eravamo intenzionati a raccontare la storia di Romina, pur senza investimenti, né attrezzature né tempo da dedicare a questo progetto, sacrificando altri lavori.

Mi viene in mente la scena dell’arresto della mamma, ad esempio. Noi sapevamo che poteva essere arrestata. Dopo il colloquio di Berta con l’avvocato ci aspettavamo che i carabinieri potessero venire da un momento all’altro. Il documentario è durato 4 anni: è impensabile che noi stessimo 24 ore al giorno, tutti i giorni, dietro a Romina. Però avevamo detto a Romina: “Mi raccomando, se vengono, avvisaci”. Quando vennero, io mi trovavo in autostrada. Stavo andando a Modena per un altro lavoro, e per fortuna avevo la telecamera dietro. Mi arriva la chiamata di Romina, mi dice: “Guarda, hanno appena bussato i carabinieri”. Modena dista da Bologna venticinque minuti: ho fatto inversione in autostrada, sono uscito al casello e ho preso la strada verso Bologna a una velocità esagerata. Sono arrivato sotto casa di Romina, non c’era parcheggio, ho abbandonato la macchina in mezzo alla strada, ho cacciato fuori la telecamera, mi sono appostato lì. Non sapevo se l’avessero già portata via o meno. Quello è stato un momento vero. Anche i carabinieri, venuti fuori dalla casa di Romina, mi chiesero di spegnere la telecamera. In conclusione, è stato complesso da quel punto di vista, molto più che rapportarsi con i personaggi, che lasciano trasparire una spontaneità assoluta.

A noi non piace ricostruire le scene. Penso che un documentario debba raccontare la realtà. Ci piaceva l’idea di prendere le “robe” così come venivano. Si crea un rapporto di fiducia con lo spettatore. I film vengono fatti per il pubblico e al pubblico non devi mai mentire. Io vengo dal giornalismo, per me il rapporto con il lettore è imprescindibile, non bisogna mentirgli. Con uno spettatore questa regola vale anche di più: paga un biglietto e ti dedica un’ora del suo tempo, gli si deve rispetto. Lo spettatore è sacro.

A conclusione dell’intervista, Valerio Lo Muzio si mostra lusingato dei tanti riconoscimenti ricevuti ai festival, compreso quello di Mente Locale, e manda un “grazie” speciale anche alla redazione di Taxi Drivers: «Siete un punto di riferimento per il cinema d’Italia, vi leggo sempre».

Immagine in primo piano di Michele Lapini (fotografo) – Immagine per gentile concessione di Valerio Lo Muzio

Romina

  • Anno: 2024
  • Durata: 72'
  • Distribuzione: Rhapsodia Film
  • Genere: documentario
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Valerio Lo Muzio, Michael Petrolini

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