Eighteen Mill Street, documentario del regista Josh Weissbach, è stato presentato al Festival dei Popoli di Firenze.
Al centro del film – e questo lo si evince fin dalla prima inquadratura – è il conflitto ancora in atto tra Russia e Ucraina, che ha causato lo sfollamento e la migrazione di moltissime persone, costrette, se non quando cacciate, a scappare dal proprio paese d’origine.
Vita lenta, vita sospesa
In Eighteen Mill Street ci sono due protagonisti, senza volto e senza nome, a voler suggerire un’idea universale di lotta e rivendicazione di diritti, che poco ha a che fare con le necessità del singolo. Sono due giovani seduti su un divano, che hanno deciso di lasciare il proprio Paese, l’Ucraina, sotto attacco, e trasferirsi in Svezia.
L’operazione, però, risulta un po’ più complicata del previsto e loro, volenti o nolenti, si ritrovano intrappolati in un limbo che assume, tramite le immagini e i vividi ricordi ripercorsi dai protagonisti, tutte le caratteristiche di quello dantesco. È una storia di bombardamenti, di attacchi, di paura, di morte, raccontata e vissuta in prima persona. La macchina da presa si concentra sull’umano, sulle mani e i volti di diverse persone. Quasi a voler restituire un segno di vita e insieme umanità, che qui sembrano ormai perduti.
La vita appare delle volte in pericolo, altre dannatamente e spaventosamente lenta, ed altre ancora quasi sospesa (come i fili della luce sovente ripresi da Weissbach), in un crescendo di tensione perfettamente palpabile. “La vita è un po’ ferma”, suggerisce l’artista protagonista del documentario, e questa frase racchiude un universo di sensazioni e di emozioni, tutte sinistre.
Il concetto di casa come rifugio
Tutto ciò che accade in Eighteen Mill Street accade in casa ed ha una connotazione, oltre che un rilievo, familiare. Quello che accade fuori da essa, nel film di Weissbach, è filmato dalla cinepresa, ed è animato da chiari riferimenti al conflitto. Vi è una sorta di linea immaginaria che divide i due spazi, e che non può essere oltrepassata. Lo spettatore non vede i protagonisti in guerra, morire sul campo di battaglia, o in manifestazioni aperte.
Questo non è possibile, perché Eighteen Mill Street vuole presentarsi come uno spazio interiore, di chiara riflessione su ciò che accade al di fuori. Non si può pensare in mezzo alla guerra, ma bisogna estraniarsi, guardare da fuori. Uscire dal caos e posizionarsi in un posto sicuro, perché se è vero che la vita pare essersi fermata, è facile cadere nel terrore, e la casa diventa un rifugio. E allora quel fuori diviene necessariamente sinonimo di pericolo. E nel pericolo viene meno la capacità di pensiero, che cede il suo posto alle emozioni e alle angosce talvolta anche irrazionali.
Per esistere, Eighteen Mill Street, deve rimanere chiuso in casa, e osservare. Tutto quello che accade fuori è ugualmente protagonista, ma solo in secondo piano, sebbene sia la causa principale delle scosse che agitano quel piccolo e travagliato mondo interiore.