D’improvviso si presenta il ritorno in forma di precipizio. Rotolo giù. Mi schianto mi frantumo. Frammenti di spine e lacrime lacerano l’anima. Riposo un po’, distaccata da tutto, incapace di ricompormi per tornare su. Rivedo lei inerme, piccolo essere risiede nel cuore, fra le pieghe di un infinito dolore. Mi ridesto dalle ceneri, invocando la fenice salvatrice insita in me. Risalgo in cima, carica del fardello gravoso, di nuovo lassù a guardare l’inesauribile Contenuto nella dolcezza dei monti.
Questo stralcio, tratto dalla poesia “Interezza” della scrittrice Chiara Dall’Ara, descrive il dramma della depressione post partum, tema su cui è incentrato Sabbie mobili – big Noise. Il film, scritto da Carlotta Parodi (attrice protagonista) a quattro mani con Andrea Vico che lo ha diretto, racconta in soli 15 minuti l’oscurità di questa complicanza psichica che colpisce, nel mondo, fino al 15% delle neo-mamme. La pellicola ha vinto 26 premi in tutto il mondo ed è stata finalista in festival di prestigio quali Oscar Qualifying Rhode Island Film Festival, Sguardi Altrove FF e molti altri. Tra le numerose qualità del corto, spicca tra tutte l’interpretazione di Parodi per aderenza al personaggio e tenuta della performance tutt’altro che stereotipata ma vissuta – carne e parole – nelle maglie di un evento tragico raramente rappresentato sullo schermo.
Sabbie mobili – big Noise: breve sinossi del film
Vera Vitale, incinta, viene prima abbandonata dal compagno e poi rinnegata dalla propria famiglia d’origine, che non approva il concepimento di un figlio fuori dal matrimonio. La donna si ritrova, dopo la nascita di sua figlia, a fare i conti con l’estrema solitudine, le difficoltà finanziarie e l’aggravarsi di un disturbo psichiatrico che la porterà a pensare di sacrificare ciò che ha più desiderato nella vita.
Dentro la gabbia di una casa senza luce
Un appartamento, Vera e sua figlio. Nella casa non entra mai il sole, le persiane sono abbassate e la solitudine è compagna fedele. Poi un neonato piange, ma nessuno lo prende in braccio, nel frigo ancora gli avanzi del giorno prima. Un uomo entra nell’abitazione come se fosse un osservatore, prende visibilmente nota di quanto riscontrato al suo rientro e poi si congeda, teatrante, in questa assurda quotidianità destinata a ripetersi.
Poi c’è il dolore fisico di Vera: il vomito, le cicatrici sul seno e un corpo in cui non si riconosce.
Di nuovo? Ma come faccio a farti mangiare…
Il tempo si allarga come una fisarmonica senza fine: scordato, stanco, un torpore esiziale. Vera precipita in una sofferenza che la porta mentalmente in una dimensione altra, quella della sua negazione. Smettere di soffrire può significare anche darsi o dare la morte. In una corrispondenza costante tra l’una e l’altra, la scrittura di Parodi e la regia di Vico mostrano le due alternative al dramma raccontato, una forse maggiormente rispondente all’evoluzione clinica della malattia, l’altra nella sua versione poetica o alare, quella in cui Vera – nel sogno – è solo una donna in gravidanza che cammina lungo la riva del mare. Non ci è dato sapere – e questo è un elemento di grande tragicità sia del tema del corto che della patologia di cui è affetta Vera – se il percorso onirico come possibilità di portare indietro il tempo sia un modo per sfuggire al presente o un tentativo disperato di guarire il proprio senso di colpa, cercando nel passato la chance di fare le cose diversamente. In ogni caso, il suono delle onde, il candore del suo vestito bianco e l’azzurro del cielo staccano letteralmente dalle tenebre delle sequenze girate all’interno dell’appartamento, ma poi vi ritornano, in un crescendo angoscioso che non risparmia lo spettatore, ma lo esorta al coinvolgimento emotivo.
Il fratello di Vera: la depressione post partum è un male inaccettabile
La condizione di Vera, già molto critica, è esacerbata dalla solutidine che la attanaglia. Vive a casa del fratello che, pur essendo un medico, rigetta la situazione ignorandola, banalizzandola ed infine mettendola alla porta. Il fratello, infatti, personifica non solo l’assoluto analfabetismo culturale sull’esistenza e sulle caratteristiche di questa patologia, ma una grave forma di inabilità affettiva che interessa, in particolar modo, proprio le persone, come i familiari, che dovrebbero essere più vicine sentimentalmente alla donne che sono affette da depressione port partum. Far leva sulla mancata realizzazione professionale di sua sorella, poi, è il culmine dell’interiorizzazione di un pregiudizio che tende a stigmatizzare coloro che soffrono di questa malattia, dipingendole come donne “incompiute”, poiché non assolvono al loro ruolo di madre nella maniera considerata normale.
Cosa c’è di sbagliato in me?
La dinamica della colpevolezza, inflitta da altri o da se stessi, è solo tratteggiata e, ciononostante, particolarmente efficace. La paura o la convinzione che la malattia possa essere emersa perché Vera ha deciso di portare a termine la gravidanza contro tutto e tutti e che questa determinazione non basti a sconfiggerla si configura come il nodo più lancinante di Sabbie mobili – big Noise. Il rispetto per la complessità dell’oggetto del racconto, con tutte le sue direttrici – psichiche, fisiche, sociali e culturali -, rende questo cortometraggio una sfida riuscita poiché, pur nei “limiti” irriducibili del mezzo cinematografico – o di qualunque altro mezzo espressivo – nel perimetrare fenomeni così totalizzanti come la depressione post partum, tenta di raffigurarne l’universo di rimando, non in maniera didascalica o accademica (rischio possibile), ma in una “incarnata”, e quindi reale. Vera è una donna in cui immedimarsi, il suo dolore riecheggia oltre il film e crea un ponte con gli spettatori, facendo in modo che la storia continui nel fuori campo, insieme alle vicende di molte altre donne che sono ancora nelle sabbie mobili e il cui rumore resta ripetutamente inascoltato.
La prima forma di conoscenza passa dal corpo, che va visto, ascoltato, toccato. Carlotta Parodi recita innanzitutto col corpo. Se il dolore, infatti, passa dal corpo, anche il diradarsi della sofferenza parte da lì. Un abbraccio fraterno ed ecco che si comincia a risalire la china. Arriva il primo aiuto, poi di nuovo in fondo e ancora su, come un’altalena di eventi, fino a quando si agiterà questo mare dentro.
Sono Diletta e qui puoi trovare altri miei articoli