In Vogue: The 90s è una serie in sei episodi disponibile su Disney Plus che documenta con filmati d’epoca e immagini di repertorio la moda degli anni Novanta nel racconto di chi più di altri l’ha vissuta, analizzata, sviscerata, relegata o promossa con sguardo critico, taglio culturale, voce influente e implacabile. Non imprenditori, stilisti, designer, indossatrici, ma i redattori di Vogue America (come Hamish Bowles, Tonne Goodman, Grace Coddington) su cui regna incontrastabile dal 1988 Anna Wintour (tra i produttori della serie).
Sfinge dalla sagoma iconica (capelli a caschetto-paggetto, occhiali da sole neri, abiti a stampa), oracolo temuto e imperscrutabile, donna saldamente al potere in un settore in cui ognuno è sacrificabile, antesignana di gusti e sensibilità che dal pianeta lusso planano democraticamente nelle nostre esistenze. Una direttrice d’orchestra perfezionista, rigorosa e acuta, aperta ai nuovi linguaggi, generosa con gli stilisti emergenti, modello di stile con un occhio al mercato, ma anche una figura contraddittoria che ispirò, com’è noto, il personaggio di Meryl Streep in Il diavolo veste Prada.
I protagonisti
Affiancata da storici redattori eccentrici, lucidi, ironicamente taglienti, Anna Wintour affresca un’epoca che non tramonta ancora oggi, soggetta a rivisitazioni, omaggi, revival, non solo nell’industria della moda; ma In Vogue: The 90s non si trincera dietro le porte degli uffici esclusivi di Manhattan della celebre rivista per una carrellata saggistica e lascia la parola ad altri testimoni e protagonisti all’insegna del glamour (alquanto patinato) e del talento dirompente, tra fashion designer, celebrità, top model.
Da Kate Moss a John Galliano, da Naomi Campbell a Stella McCartney, da Tom Ford a Ralph Lauren, senza tralasciare Miuccia Prada, Hillary Clinton, Nicole Kidman, Victoria Beckham: gli anni Novanta rivivono con toni pop, ritmi avvincenti, andirivieni temporali, mentre si snodano i capitoli di una parabola elettrizzante votata al nuovo, narrata nelle cadenze tipicamente statunitensi di rischi, contestazioni, rinascita e trionfi consegnati ormai alla storia del costume e della società.
La dolcezza del vivere la rivoluzione
Sembra che, come la Storia, anche l’alta moda sia costituita per codice genetico da tonfi, rifiuti e risorgimenti, che proceda più da intuizioni fortuite che da calcoli programmatici, nonostante i suoi obblighi capitalistici da industria quotata. Ogni episodio di In Vogue si addentra dunque nello scacchiere del bacillo della novità in controtendenza, della folgorazione audace di una personalità sia accorta che estrosa, studiando le mosse e le contromosse del pubblico giovane, degli acquirenti, degli esperti di settore, dei critici, delle star. Espone con un didascalismo brioso e scattante le reazioni scandalose e le nuove, allettanti cittadinanze, con uno smalto iconografico nitido e impeccabile, slavato solo dall’intermezzo di materiali di repertorio dal sapore vintage.
Un mosaico di copertine, scatti d’autore, testimonianze di defilé, inediti dietro le quinte, retroscena redazionali, dichiarazioni spontanee che raccontano l’avanzata del rivoluzionario e del progressismo all’insegna di una costosissima bellezza di capi e accessori. Talvolta con un retroterra di streetstyle o arte povera.
Artigiani di storie e di magnificenza
Il tramonto dell’epoca delle modelle scultoree e di levigata bellezza come Linda Evangelista e Claudia Schiffer, su cui piombò, terremotando, l’estetica imperfetta ma avvicinabile e grintosa di Kate Moss, assurta a simbolo delle inquietudini segrete degli anni Novanta; l’avvento di una moda non edulcorata, caleidoscopica, controcorrente, sbalorditiva di ragazzacci british come Alexander McQueen e John Galliano, che svecchieranno marchi di sofisticata eleganza parigina come Givenchy e Dior, nel solco della rispettosa e avanguardistica riscrittura dei codici.
Inoltre, la sostituzione progressiva di ‘volti’ da cover delle top model con quello delle attrici di Hollywood, con la nuova alleanza, oggi quanto mai scontata, tra haute couture e cinema (con gli outfit casual in jeans presto banditi dai red carpet), ma anche tra grandi firme e universo musicale di MTV; la consacrazione di un’istituzione culturale come il Met Gala per finanziare il Costume Institute del Metropolitan Museum di New York, evento a tema tra i più attesi, sbalorditivi e glamour dell’anno (“il Super Bowl della moda”) che fu rilanciato da Anna Wintour dissotterrandolo dalla tradizione elitaria newyorkese e rendendolo più spettacolare e stravagante.
Infine, le contaminazioni inaspettate tra brand prestigiosi e cultura hip hop all’insegna dell’orgoglio black, il boom del movimento grunge, non ben accolto ma rispettato dalla mitica direttrice e dal suo team; l’ascesa degli stilisti statunitensi come Calvin Klein, Ralph Lauren, Tommy Hilfiger, Donna Karan nell’episodio più convenzionale della miniserie. Imprescindibile poi un filone narrativo dedicato al made in Italy, con il ricordo affettuoso di Gianni Versace, l’intervista a Miuccia Prada, interprete di una moda concettuale e più femminista, gli aneddoti di Tom Ford da Gucci, alfiere di un’esuberanza sensuale, talvolta setosa e talvolta sfacciata.
Forma convenzionale, materia incandescente
Una miniserie incentrata sulla rivista di moda più influente del pianeta avrebbe potuto intraprendere sulla carta molteplice strade: uno studio di caso dell’affermazione di un prodotto editoriale che travalica i suoi confini per dettare regole e genera interessi in altri media, ora anche social; uno scorcio voyeuristico sulla realizzazione meticolosa e affascinante dei numeri della rivista nel dietro le quinte di Vogue, sulla scia del documentario del 2009 The September Issue; oppure un racconto sui mutamenti della definizione dei canoni di bellezza e delle declinazioni della femminilità in linea con l’evoluzione dei tempi attraverso le copertine e i servizi.
Invece per In Vogue si è scelta un’impostazione diversa, più tradizionale e coerente con la fruizione mainstream su Disney Plus, ma non meno efficace e gradevole: il mero capitolo di una decade di storia della moda che fu un connubio di contrari, tutti trascinanti, sovente divisivi. Massimalismo e minimalismo, provocazione e sobrietà, eleganza e trasgressione, esclusività e globalizzazione: sempre però sotto il nume tutelare del talento, del genio, della rottura con il passato.
Orizzonti di gloria e sogni al tramonto
Al di là degli schemi rodati di un’esposizione semplice e ad effetto, per gli appassionati ed esperti di moda che conoscono quell’era di personalità irripetibili e sperimentazioni di non ritorno resta lo struggimento nostalgico nella (ri)scoperta di un materiale d’epoca difficilmente reperibile, si assaporano i processi creativi e il clamore su svincoli clou della storia dell’haute couture e della sua affermazione mediatica, ormai parte integrante del costume e della nostra storia collettiva. Dal look Versace di Liz Hurley alla première londinese di Quattro matrimoni e un funerale, al mozzafiato sleep dress senza corsetto indossato da Lady Diana al Met Gala del 1996, fino all’abito orientaleggiante di Nicole Kidman agli Oscar 1997, entrambi firmati da John Galliano per Dior.
In questa avventura ammantata di sogno fanciullesco per un tempo inesorabilmente trascorso e già storicizzato, non è esente la malinconia pungolata dall’incertezza per il presente (il peso dell’eredità artistica del compianto Karl Lagerfeld, a cui è stato dedicato il Met Gala del 2023) o dalla consapevolezza che dietro le consacrazioni unilaterali, il profluvio di notorietà e denaro, i nomi “brandizzati” dei fashion designer c’è stato anche il versante tragico, in questa prima stagione solo accennato o talvolta taciuto: la cacciata di Galliano da Dior, la scomparsa prematura di Alexander McQueen per suicidio, la gestione della maison Versace dopo l’omicidio di Gianni. Ma questa è un’altra decade, e forse, come si auspica, un’altra stagione.