My First Film si apre con lo schermo bianco del computer in cui qualcuno scrive “non so come iniziare” ed è esattamente questa la sensazione che Zia Anger, regista del film, lascia alla fine. Come si racconta un film come questo? Da dove partire per far capire la portata non solo artistica ma anche e soprattutto storica che il film di Anger potrebbe riuscire a trasmettere? My First Film utilizza un linguaggio metatestuale. A prescindere dalla storia raccontata, la genialità risiede nella partitura della sua sceneggiatura: difficilissima, complessa eppure chiara e limpida, che scivola come un ruscello. Fresca, infine. Quello di Anger è un film che si accartoccia su se stesso, che dovrebbe essere dissezionato per capirne la portata non solo emotiva ma anche per cogliere le grandi capacità della sua scrittrice.
La complessità di My First Film
Il film è un percorso a ritroso dove si era interrotto il primo vero film di Anger: Always All Ways, Anne Marie. Un travaglio doloroso quello che porta alla luce My First Film perché parla di qualcosa di straordinario, ovvero l’accettazione dei propri traumi e, forse, il loro superamento. Sia chiaro, il film distribuito su MUBI, è un film di narrazione ma, in diversi momenti, si sovrappongono almeno due altri piani narrativi. C’è la storia della regista Vita (Odessa Young) strafatta di Adderall che cerca di portare a termine la sua produzione, quella di Vita che racconta se stessa a posteriori e quella di Zia Anger. Sono tutte la stessa storia, ma Anger le fa funzionare come ingranaggi di un orologio che, per troppo tempo, si pensava non battesse mai due volte la stessa ora.
My First Film, succede a tante persone, solo che nessuno ne parla
Vita è emozionata di finire la produzione del suo primo film low budget, realizzato grazie a una campagna di crowdfunding, insieme al suo gruppo di amici e al suo ragazzo. Eppure, nessuno sembra prendere seriamente il progetto. Vita ci crede fino al midollo, si sente geniale nelle sue scelte, pensa che questa sia la realizzazione di un sogno: il mondo fuori da lei non sarà così comprensivo. La sua crew causa anche una serie di scelte sbagliate dettate dalle circostanze. L’ abbandonerà di sana pianta e il fidanzato alcolizzato e abusante (Philip Ettiinger) cercherà i modi di allontanarla da tutti, fino a quando non sarà lei stessa a respingerlo. C’è una frase di un libro molto famoso che descrive bene la storia di Vita: l’unico modo per sopportare il presente è immaginarsi nel futuro. Le persone attorno a Vita non comprendono la stessa misurazione temporale, il qui e ora è un gioco che non è un gioco. Meglio ancora è un travaglio, doloroso, difficile, disconnesso ma lungimirante.
La proiezione nel futuro
Ed è forse la lungimiranza la cosa che spezza definitivamente Vita. Due aborti appena ventitreenne, la deresponsabilizzazione rispetto l’incidente in auto del suo protagonista e la piega, infine, catastrofica consequenziale all’intricato mondo dei festival. Vita è proiettata nel futuro e si perde nel presente. La sua vita è quella che sta cercando di raccontare. Quella di una ragazza, interpretata da Dina (Devon Ross) che si occupa del padre malato, ma a un certo punto rimane incinta e decide di andarsene di casa per cercare sua madre che l’ha abbandonata alla nascita. Come una litania la Vita del futuro, in voice-over, ripete “Questa è una storia vera. È una storia vera, tranne che io ho due mamme, mio padre non è morto e ho abortito due volte”. La femminilità permea l’intera pellicola. Dina, che è anche Vita, che è anche Zia, dice: “Non mi sento mai donna fino a quando qualcuno non mi riconosce come tale”e quindi le ovaie, l’utero, la fecondazione e il suo aborto. L’unica e ultima traccia della nostra animalità, del nostro essere animali: la donna che è respinta e che respinge, che decide e che poi rimane sola, a fare i conti con i fantasmi mai nati. Che siano bambini, opere d’arte o atti di un femminile rivoluzionario.
“Sono davvero felice che tu stia guardando, più di quanto tu possa mai immaginare”
Quando alla fine Anne Marie (Dina) partorisce, mette al mondo se stessa ed è un finale fittizio che si allinea a un finale reale: quello di Zia Anger che, attraverso Vita, racconta di come quel suo primissimo film sia oggi, a tutti gli effetti, considerato abbandonato. Troviamo una sofferenza atavica per questo momento, un dolore struggente che non equivale né al racconto dell’aborto né al peso estenuante di capire di chi si è figlia. Zia Anger irrompe nella scena di Vita, alla fine del suo travaglio in cui respirano tutti, si muovono tutti e gridano tutti, forte, talmente tanto, che sembrano risvegliare una rabbia ancestrale che riguarda tutti e nessuno e che, infine, mette a posto le coscienze. Anger sposta la camera verso chi ha partecipato alla realizzazione di My First Film, il suo secondo film, e riprende il dietro le quinte, la sua crew che diventa protagonista, lei che si ricongiunge a se stessa: in un eterno e questa volta – si spera – pacifico ritorno a noi stessi.
Tutti sono autori di questo film
“Tutti sono autori di questo film” scrive Anger nei titoli di coda e questo ci dice tanto della regista e della prospettiva cinematografica che ne verrà: Anger è una persona che ha vissuto il costo del sacrificio, che prende dal contorno il contenuto, che rabbonisce lo spirito con il dolore del travaglio. La donna-madre si affaccia prepotente, ma madre di cosa? Anger ci dice che non importa se un figlio o un altro progetto di vita: se la donna è donna quando viene riconosciuta come tale, allora è madre quando attraversa tutte le fasi della nascita e il loro riconoscimento.
Non c’è niente di più doloroso per Anger che aver visto Always All Ways, Anne Marie descritto come un progetto abbandonato, un film che è un figlio mai nato e che pur vive nelle dolorose tracce che le ha lasciato dentro il corpo. Infine Anger si dimostra sinceramente grata, predisposta con dolcezza verso lo spettatore, che non sa chi sia ma che spera di sapere chi potrà essere dopo aver guardato il suo film.