All’81esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia esiste una sezione molto interessante e da tenere sempre sott’occhio, Orizzonti Extra, al cui interno troviamo King Ivory. La pellicola, scritta e diretta da John Swab, compete per il premio del pubblico, insieme a titoli di tutto rispetto, quali September 5 e Vittoria. Nel ricchissimo cast, spuntano i nomi di James Badge Dale, Ben Foster, Melissa Leo, Michael Mando, George Carroll e Graham Greene.
Se lo spunto iniziale per dare il via al progetto viene dall’esperienza personale del regista statunitense, la forza del progetto è, senza dubbio, nella sua resa e nella lucidità dello sguardo. A metà strada tra un videogame e un documentario, King Ivory immerge completamente lo spettatore dentro le storie di questi uomini e donne, alle prese con una realtà fatta di droghe, dipendenze e dolore.
King Ivory crea dipendenza
Il Fentanyl, chiamato anche King Ivory, è ormai una realtà disarmante negli Stati Uniti, essendo meno costosa di tante altre sostanze stupefacenti e nascendo come farmaco usato nella terapia del dolore. Dopo il passaggio del Covid, si è verificato un vero e proprio boom, causando una crisi a più livelli. Nelle case della gente, tra le strade e dentro le caserme di polizia. Tutti possono farne uso, entrando inevitabilmente in una spirale da cui è difficile, se non impossibile, uscire. Le organizzazioni criminali proliferano, mentre le forze dell’ordine cercano di mettere un freno alla diffusione della droga.
Layne West (Badge Dale) è un agente dell’antidroga di Tulsa, che si ritrova improvvisamente e tragicamente coinvolto in una battaglia senza esclusione di colpi, nel momento in cui il figlio Jack finisce vittima della dipendenza. Insieme al collega Ty (Carroll), West si pone un unico obiettivo: rintracciare e arrestare Ramón Garza (Mando), che comanda il locale cartello messicano. Nelle sue mire, ci sono anche Holt Lightfeather (Greene), Capo Guerriero della Fratellanza indiana, che controlla il traffico in tutto lo stato, dal penitenziario statale dell’Oklahoma, e la banda della mafia irlandese locale, guidata da George “Smiley” Greene (Foster), insieme alla madre Ginger (Leo).
Guardiamoci intorno e agiamo!
Durante l’incontro, il regista ha raccontato del suo passato e della dipendenza dal Fentanyl, così come Carroll ha ricordato gli amici persi a causa della droga. Avere alle spalle storie simili fa sì che un film abbia davvero una storia da condividere. I messaggi che ne vengono fuori, nel corso dei 131 minuti di pellicola, sono numerosi, alcuni anche scontati, ma così importanti che è sempre un bene ribadirli. Fare fronte comune dinanzi a simili fenomeni sembra essere l’unica soluzione possibile, nella speranza che gli sforzi conducano a qualcosa di reale e duraturo.
Attraverso la lente del crime e del cinema d’azione, sicuramente più appetibile e di facile fruizione, Swab confeziona un’opera di denuncia, di critica e di invito ad agire, nel caso in cui ce ne fosse bisogno. Non basta solo fare un’analisi di coscienza, ma è necessario osservare bene ciò che ci circonda, comprenderlo e proteggere chi non può farlo da solo, da qualcosa che si insinua nella mente e nelle vene e non se ne va più.
*Sono Sabrina, se volete leggere altri miei articoli cliccate qui.