In concorso all’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, El Jockey è un’opera irriverente e surreale, con protagonista la bella Tokyo, al secolo Úrsula Corberó, de La casa di carta. La pellicola, diretta dall’argentino Luis Ortega, è qualcosa di assolutamente originale all’interno di una kermesse quale la Biennale, proprio per il suo spirito provocatorio e la quasi insensatezza generale della narrazione.
In realtà, di senso e significati ce ne sono moltissimi nel corso dei 96 minuti di durata, ma bisogna entrare bene nel mood del progetto, abbracciarne la poetica e sospendere il giudizio, almeno sino al finale. Ovviamente, con un’opera simile, la critica non poteva che essere combattuta, tra chi lo definisce una “genialata” e chi lo bistratta come un prodotto mediocre.
Di cavalli da corsa e fantini formidabili
Per quanto la storia appaia semplice, almeno in superficie, contiene i germi di tanti e importanti temi, dall’accettazione di sé stessi alle sfumature del sentimento d’amore, fino ad arrivare all’idea di libertà e al peso delle responsabilità, che può essere intesa in vari modi.
Il protagonista, Remo Manfredini (un eccezionale e memorabile Nahuel Pérez Biscayart) è un fantino formidabile: nonostante sia dipendente da sostanze non proprio legali, vince tutte le corse in sella ai suoi purosangue. Ed è il motivo per cui Sirena (Daniel Giménez Cacho), un gangster vecchia scuola, lo tiene nella sua scuderia e lo protegge, insieme alla compagna April (Corberó), anche lei fantina.
Le cose cambiano e si mettono male il giorno in cui Remo uccide accidentalmente un cavallo da corsa molto prezioso. Ricoverato con un trauma cranico in ospedale, il giovane darà avvio a un percorso che lo porterà a diventare un’altra persona. O forse, semplicemente, a ritrovare se stesso.
Nessuno ha imparato ad amare.
El jockey insegna lo stile
Il tema dell’identità e delle sfumature che essa può assumere in ogni uomo e donna è predominante in El Jockey. E il modo in cui viene trattata, attraverso il filtro della commedia grottesca, rende il progetto estremamente interessante e unico nel suo genere. Il tono è evidente sin dall’apertura, con questa carrellata di personaggi che definire eccentrici sembra un eufemismo, tra i quali spunta il vero protagonista. Se l’idea alla base ha delle potenzialità fortissime, queste trovano la giusta affermazione nel momento in cui sono rese sullo schermo.
La vita è perfetta.
Ogni figura ha un suo spessore e, soprattutto, una sua personalità, che permette di staccarsi dallo sfondo e di dialogare direttamente con lo spettatore. A dare man forte ci pensa anche l’aspetto visivo: la cura e l’attenzione ai dettagli – come per esempio l’abbigliamento “complementare” di Remo e Abril – la fanno da padrone in un’opera che fa’ dello stile pop il suo cavallo di battaglia. La musica, compagna costante e perfetta di una narrazione così ritmata da sembrare, a tratti, un videoclip, diviene la ciliegina sulla torta. Da antologia un paio di scene: la danza tra Remo e Abril, a definire i ruoli dell’uno rispetto all’altra, e la sequenza negli spogliatoi, a metà strada tra immaginazione e realtà.
*Sono Sabrina, se volete leggere altri miei articoli cliccate qui.