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PERCHE’ IL SIG. R. È DIVENTATO MATTO? Fassbinder: il coraggio di narrare la folle alienazione quotidiana

Tutto il cinema di Rainer Werner Fassbinder è cinema dell’alterità, della diversità anarchica, irriducibile agli schemi del buon vivere borghese

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Tutto il cinema di Rainer Werner Fassbinder è cinema dell’alterità, della diversità anarchica ed irriducibile agli schemi del buon vivere borghese, della civiltà regolata dai ritmi e dagli schemi della produzione. E’ impossibile entrare nella mole complessa (solo nel 1978 scrisse e diresse 5 film) del suo cinema. Tante ed infinite potrebbero essere le citazioni.

Ma per analizzarne al meglio la potenza dirompente, la carica “eversiva” che lo contraddistingue, prendiamo in esame un film forse poco conosciuto ma che in realtà rappresenta a pieno lo sforzo poetico-stilistico portato avanti da Fassbinder in quegli anni; Perché il sig. R. è diventato matto? (1970)

Un film a prima vista banale, scontato, a tratti noioso, ovvio per noi abituati ad una visione totale e totalizzante, in una fase in cui il cinema e la televisione civettano gli stessi temi e le stesse facce, in cui il visibile è stato organizzato in modo da essere fruibile da tutti in qualsiasi momento a qualsiasi latitudine.

Nell’era del cinema televisivo nulla più scandalizza, nulla più disturba, nulla più inquieta, nulla più fa riflettere. Tutto viene visionato ed assorbito, decodificato psicologicamente e rivissuto meccanicamente. Lo spettatore ormai non è altro che un contenitore “vuoto” pronto a tutto, aperto a tutto. E, come si può, parafrasando il filosofo Giorgio Agamben “entrare nell’aperto”, prendere possesso del “già tutto aperto”? Come si può entrare in un mondo già dispiegato, visionabile in ogni istante della nostra vita?

Dunque è evidente che al di là del giudizio estetico e narrativo che possiamo dare ad un singolo film, il problema che si pone oggi con sempre maggiore urgenza e necessità risiede proprio nello statuto ontico-ontologico del cinema come mezzo di produzione, fruizione e comunicazione di immagini, suoni, simboli, estetiche, psicologie, personaggi, storie, ecc.

Tornando a bomba sul film citato, la storia che narra è presa da un fatto di cronaca.

Il sig. Raab, modesto disegnatore industriale di Monaco, sposato con una bella ragazza della buona società, figlio di otto anni, villetta in periferia, in procinto di ottenere una promozione e magari comprare un’auto più spaziosa ed una villetta più grande ed accogliente, uccide in un “raptus di follia” moglie, figlio e la mattina dopo in ufficio si toglie la vita impiccandosi ad una finestra del bagno.

Un fatto di cronaca locale; nulla di più. No. Per Fassbinder è l’emblema della crisi esistenziale di una piccola e media borghesia (che rappresenta la struttura portante della società dei consumi) stretta tra le lotte di potere del grande capitale e la ribellione anarchica ed irrazionale esplosa col ’68, inabile a comprendere le inedite forme di vita e d’esistenza che si andavano profilando, le trasformazioni sociali in atto in quegli anni, i mutamenti antropologici, come avrebbe detto Pasolini (emblematici nel suo film Porcile), che il neo-capitalismo dei consumi stava provocando nella mentalità popolare e nelle psicologie di massa; una pressione nevrotica tra gli istinti interiori repressi e l’insana (liberatoria) voglia di viverli liberamente. Insomma, l’eterna lotta tra forma e sostanza.

Non è un caso che la dialettica forma-sostanza ragione-follia, sia davvero la cifra stilistica e narrativa di tutto il cinema di Fassbinder. Basti pensare a film come Veronika Voss, Lili Marleen, Un anno con 13 lune, in cui ad una realtà perfettamente razionale, vivibile, fruibile in tutta la sua innata qualità, si contrapponga l’orrore folle, la mostruosità demoniaca che si nasconde sotto le sue pieghe. Ciò spiega, almeno in parte, il costante ricorso di Fassbinder all’ambientazione nazista, che permette di entrare nel cuore di questa cronica contraddizione. Una contraddizione che la tradizione nordica fin da Kant, analizza molto esaurientemente.

Tornando al Sig. Raab, possiamo dire che il suo gesto risolutivo corrisponde all’elementarità dell’alienazione brutale, di una meccanica quotidiana (che Fassbidner ricrea alla perfezione con l’uso dell’occhio-macchina a mano, di ambienti casalinghi claustrofobici, noiose conversazioni tra parenti, fiumi parole che non dicono nulla) che porta all’apatia, alla perdita di ogni passione ed entusiasmo, al “togliersi di mezzo” come unica via razionale e salubre per rivendicare quel briciolo di umanità sezionato, derubricato da una società che subordina ogni slancio vitale, ogni qualità poeticamente umana alla logica quantitativa del profitto e della produttività.

Nella “lucida” scelta del darsi la morte in quanto opzione politica di “liberazione” e di dignità dell’essere umano come ente biologico dotato di coscienza, ragione e cuore, si trovano nitide tracce della proposta teorica di Camus, del suicidio come autentico atto rivoluzionario; la morte promossa come atto politico, uscita di scena da un mondo (da cui non si può mai entrare ma solo uscire), da un giornaliero che ci è estraneo, ostile, incomprensibile, opprimente, a violentarci intimamente, a farci diventare giorno dopo giorno macchine obbedienti, ossequienti e non più uomini storici concreti dotati di passioni, volontà ed intelligenza, sogni e speranze, poesia e linguaggio; marionette – parafrasando Bergman – di un gioco crudele, tragicomico senza via d’uscita.

Ed è precisamente la critica a questa materialità quotidiana che step by step de-materializza, trascende la carnalità umana in una reificazione senza ritorno, senza inizio né fine, senza logica né ordine, che parte dall’uomo e che si risolve nell’uomo attraverso l’uomo (o di ciò che ne è rimasto) che emerge da questo film. Un’opera, che più di ogni altra, testimonia la differenza qualitativa di un cinema che aveva la forza e il coraggio (come in altri termini tentò il cinema erotico o pornografico) di mostrare ciò che non era mai stato mostrato prima, di spingersi oltre il visibile per far emergere l’invisibile, rappresentare l’irrapresentabile, creando uno spazio ex lege sottratto alla morale e ai pregiudizi. Un cinema cioè ancora in grado di creare un immaginario, un’estetica, un vocabolario critico-visivo che oggi non è più in grado di fare. Oggigiorno il cinema tenta disperatamente di mostrare ciò che è già tutto mostrato e mostrabile. E’ un puro e semplice esplicitare l’esistente, il dato di fatto, il mondo che abbiamo giornalmente sotto gli occhi. In questo senso è amusement, puro e semplice intrattenimento, usando un’espressione adorniana. Cerca, spesso senza riuscirci, di registrare lo scorrere fluido ed inattaccabile dell’esistenza, abbellisce il male o glorifica il bene. Alcuni decenni fa,  faceva emergere pezzi di realtà viva ed attiva dal nulla, dall’oblio in cui era caduta, dalla paura di guardarla e di riconoscersi in essa; tentava di cambiare il mondo facendone vedere il lato oscuro, disturbante, caotico, irrazionale. Un compito, tutto sommato, ancora irrisolto e ahimé attualissimo.

 Claudio Vettraino