
Anno: 2012
Durata: 100′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Filippine
Regia: Brillante Mendoza
Finalmente ho potuto misurare il mio sguardo con uno dei nuovi autori contemporanei più originali e convincenti. Brillante Ma Mendoza, filippino, è un regista da annotare e scoprire (per chi non lo conoscesse) all’interno del panorama cinematografico mondiale. Approdato al cinema dalla pubblicità, sin dai suoi esordi ha abbracciato un realismo capace di inglobare sguardo ‘documentaristico’ nella penetrazione visiva del reale e finzione attenta ad afferrare la verità (spesso estrema, cruda e senza filtri) dell’umanità su cui si sofferma. Premiato a Cannes per la miglior regia nel 2009 con Kinatay (film che me lo ha rivelato), già approdato a Venezia nel 2009 con Lola, appare portatore di un cinema di prorompente contatto-tensione nei confronti di chi guarda, sottoposto costantemente a una sfida affascinante: misurarsi con una rivelazione niente affatto complice.
Mendoza apparentemente ‘disturba-stanca-asfissia’ dentro i suoi viaggi capaci di toccare l’angoscia più terrificante (Kinatay ci mette davanti una Manila infernale dominata da una violenza a dir poco disumana, in una terra in totale anarchia, dentro un incubo nel quale ci obbliga a restare, della cui realtà ci obbliga a prendere atto), la consapevolezza altissima di uno status-condizione umana per mezzo del suo popolo, che filma e racconta schiacciato-sovrastato nel numero, nella povertà, nel condizionamento geografico (Lola ci mostra tutta la crudezza del vivere la vecchiaia nella mastodontica-stritolante Manila). La sua macchina da presa ci trasmette completamente il peso, l’essenza dell’esistere, anche nell’oggettività di una condizione che riusciamo perfettamente ad assorbire, compenetrare.

Sinapupunan ci sorprende nell’atmosfera che ci accoglie. Non siamo più nella claustrofobica Manila: la dolcezza di un mare color smeraldo nella pace dei suoi flutti ci abbaglia della bellezza offertaci. E dentro quel mare, c’è l’uomo. Più precisamente i Bajau, popolazione indigena del sud est asiatico, di antiche origini e tradizioni, i nomadi del mare, si muovono e vivono tra palafitte ed acqua. Il richiamo-rappresentazione della vita mendoziano è però immediatamente raccolto-filmato nel parto a cui assistiamo, con cui si apre la pellicola. La macchina da presa lo guarda nella sua meravigliosa crudezza e bellezza: la vagina in primo piano sempre più dilatata e sporca di sangue, dalla quale esce, spinta dopo spinta, il corpicino che si affaccia alla vita. L’occhio di chi guarda, trasgredito nel patto implicito-generalizzato di preservazione con l’autore, rimane scosso-tradito e insieme spinto-sollecitato, grato, infine, alla rivelazione offertagli.
Shaleha, la levatrice (interpretata con incredibile autenticità da Nora Aunor, vera e propria icona nelle Filippine, attrice, cantante e produttrice) assistita da Bangas, il proprio marito, porge con gioia e delicatezza il neonato alla giovane madre. La vita le ha dato il talento di assistere-condurre una nascita, ma non il dono di concepire. Legata al marito da un amore reciproco e solido, fatto di sguardi e poche parole (non c’è bisogno di altro). Un ‘camminare fianco a fianco dentro una simbiosi che Mendoza ci mostra attraverso un ‘pedinamento visivo’ all’interno della loro vita quotidiana, tra pesca, lavoro ai tappeti, e ‘inspiegabile’ (per me che guardo, ma non per la cultura della comunità dei Bajau, di religione musulmana) ricerca: trovare una nuova e giovane moglie al marito, capace di dargli quel figlio che lei non è stata in grado di offrirgli.

Dentro il loro rapporto, la macchina da presa si allarga ed esplora uno spaccato sociale nel quale, vivida, ci appare un’esistenza povera, semplice, ma autentica nella bellezza di uno stare al mondo ancora ‘preservato’ da un contatto diretto con la natura, da un senso della comunità realmente condiviso (sarà proprio la comunità ad aiutare concretamente i due protagonisti, raccogliendo i soldi necessari per pagare la dote alla giovane e promessa sposa, finalmente trovata), da rapporti e riti dal sapore ‘sacro’ per la non corruzione-degenerazione del loro sviluppo. Una vita ‘vergine’ di cui non si può non invidiare, malinconicamente, una innocenza (la nostra) perduta.
L’occhio mendoziano adombra, nei suoi interstizi visivi, l’avvento di una corruzione prossima, nelle irruzioni, improvvise e prepotenti, di militari, nell’intolleranza delle vicine popolazioni. Shaleha realizzerà il sogno di Bangas (mai messo in discussione, neppure per un momento): sarà lei stessa a far nascere quel bambino, nell’atto d’amore più alto, consapevole della solitudine che l’attenderà a cominciare da quel parto. Mendoza eleva con il suo racconto di vita crudo e vivido, con il suo occhio fotografico che attraversa le luci, i colori, la superficie, l’intimità, la ‘verità’ della realtà che rappresenta, una sezione (il Concorso) quest’anno decisamente deludente quanto a originalità-maturità visiva e di contenuto.
Maria Cera