L’ultima luna di settembre (il titolo internazionale è Harvest Moon) del regista mongolo Amarsalkhan Baljinnyam, sarà visibile nelle sale cinematografiche a partire dal 21 settembre, distribuito da Officine Ubu,
L’ultima luna di settembre. La trama
Tulga (interpretato dallo stesso regista, Amarsalkhan Baljinnyam) è un uomo che, da tempo, ha lasciato la campagna dove è cresciuto per andare a vivere in città.
Nel giorno in cui decide di lasciare la fidanzata, non accettando il figlio che lei ha avuto da un altro e di cui ignorava l’esistenza, riceve una telefonata con la quale gli viene comunicato che il vecchio padre è molto malato e chiede di lui. Decide così di far ritorno alla yurta paterna, nelle colline della zona più remota della Mongolia, e quando il padre muore – in realtà si tratta del patrigno che lo ha cresciuto quando è rimasto orfano – sceglie di fermarsi per adempiere alla promessa fatta al vecchio, cioè di portare a termine il raccolto prima che giunga l’ultima luna di settembre e, con essa, il freddo dell’autunno.
Tulga viene così in contatto con Tuntuulei (Tenuun-Erdene Garamkhand), un bambino di dieci anni che vive con i nonni in una tenda poco lontano. Tuntuulei è orfano di padre e la madre lo ha abbandonato per andare a cercare fortuna in città. Dopo i primi contrasti, fra i due si instaura un rapporto molto stretto, quasi di dipendenza reciproca. Tuntuulei percepisce in Tulga una figura che potrebbe colmare il vuoto lasciato dal padre perduto troppo presto, mentre l’uomo capisce di poter dare al ragazzino quell’affetto che a lui non è mai stato concesso.
L’ultima luna di settembre, tratto da “Tuntuulei”, un romanzo breve di T. Bum-Erden, è un film che fa della lentezza la sua arma vincente. Che non vuol dire noia, tutt’altro. Al contrario è un ritmo che ci permette di percepire l’essenza di un mondo distante anni luce da quello che conosciamo e a cui siamo abituati.
La Mongolia descritta da Amarsalkhan Baljinnyam (qui alla sua opera prima, ma attore famoso in patria e comparso anche nella serie Netflix,Marco Polo) è quella della remota provincia dell’Hentij, in cui la densità della popolazione è pari a 0,95 abitanti per km². Un luogo di grande fascino e bellezza. Un posto in cui la tecnologia ancora non è arrivata, la fienagione viene fatta ancora a mano con la falce e, per una chiamata con un cellulare, bisogna issarsi in piedi sulla groppa di un cavallo, sollevando al cielo una pertica sulla quale è attaccato il telefono, allo scopo di poter catturare quelle poche onde che permettono di farlo funzionare.
Così il ritorno di Tulga nei luoghi della sua infanzia rappresenta, per lui disabituato ai ritmi lenti di quel mondo rurale e arretrato, un ritorno alle radici, un riappropriarsi delle proprie origini. Un processo non facile per l’uomo che, inizialmente, ha come unico scopo quello di finire quanto prima il raccolto del fieno per poter tornare in città. Eppure, nel momento in cui entra in contatto con Tuntuulei, scatta in lui qualcosa che gli permette di adattarsi a quel mondo e, soprattutto, di entrare in profonda sintonia con il bambino.
Inizia così per tutti e due un percorso di crescita che li renderà migliori. Entrambi hanno avuto poco dalla vita, spesso sofferenza. Il bambino per la perdita del padre e per la lontananza dalla madre, l’uomo a sua volta per la perdita dei genitori e per il rapporto contrastato con il patrigno, che lo hanno spinto a rinchiudersi su se stesso.
Una storia semplice ma che tocca temi molto profondi
Baljinnyam racconta una storia apparentemente semplice, ma che affronta in realtà vari temi molto profondi. Innanzi tutto quello della genitorialità che non necessariamente deve essere biologica. I due protagonisti sono entrambi orfani. Tulga è cresciuto con un uomo che gli ha fatto da padre e Tuntuulei scopre in lui la persona che potrebbe prendere il posto del padre che non ha mai avuto. Il rapporto fra i due cresce e si sviluppa in questo senso. Si instaurano, fra l’adulto e il bambino, un affetto e una complicità fatta di sguardi, di giochi e risate, di insegnamenti e di cavalcate al galoppo nella sconfinata steppa mongola. Un rapporto d’amore padre-figlio che lentamente cresce, innalzandosi, idealmente, sino al cielo stellato che i due osservano fianco a fianco in quel vuoto colmo di enorme bellezza.
L’ultima luna di settembre è, così, un film sull’accoglienza, sulla capacità di amare. Ma è anche un’opera che indaga il rapporto contrastato fra antico e moderno, dove la tecnologia è rappresentata dall’arrivo di una trebbiatrice che può fare in una giornata il lavoro di settimane di Tulga. Una società arcaica e isolata in cui si percepisce, nella figura dei due ubriaconi, la piaga dell’alcolismo.
Un film ricco di umanità in cui domina il paesaggio esaltato dalle riprese in campi lunghi, dove le note dell’armonica che Tulga ha ricevuto in dono dal patrigno morente sottolineano la solitudine e la dimensione fuori dal tempo in cui viene a trovarsi il protagonista.
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