Ramona (2022) è l’esordio nel lungometraggio di Andrea Bagney, passato alla 17º edizione della Festa del cinema di Roma. Una pellicola che si rifà molto ai dialoghi ciarlieri e alle atmosfere fotografiche di Woody Allen. Pregevole sotto certi aspetti, anche se manca quell’allure intellettuale e ironico che possiede soltanto il regista newyorkese.
Ramona, la trama
Ona (Lourdes Hernández), diminutivo di Ramona, è un’aspirante attrice, che soffre d’ansia e vive a Lavaspiés, quartiere popolare e degradato di Madrid. È fidanzata con il cuoco Nico (Francesco Carril); ma un giorno incontra in un bar Bruno (Bruno Lastra), un non “allineato” che poi scoprirà essere un regista. Ona comincia a dubitare sulla sua vita, che credeva caotica ma sicura.

Ona, ritratto in bianco e nero di una donna in cerca di equilibrio (a Madrid)
Le prime inquadrature, che scorrono sui titoli di testa, marcano l’omaggio a Manhattan (1979) di Woody Allen, con molti squarci – in bianco e nero – di alcune particolarità architettoniche di Madrid, commentate da una musica ariosa, una serenade simile a quella Rapsodia in blu di George Gershwin. Un introduzione alleniana che era già stata (ri)fatta in Pazzi a Beverly Hills (L.A. Story, 1991) di Mick Jackson e con Steve Martin.
Strutturato in capitoli, che scandiscono il progredire sentimentale e confusionario della protagonista, è un film che fa leva sulla raffinata fotografia in bianco e nero di Pol Orpinell e sui dialoghi, tra il frizzante e il riflessivo, scritti dalla stessa Bagney. Una commedia che inizia molto bene, con l’esilarante incontro in un bar tra Ona e Bruno, e il seguente demenziale casting, tutto giocato su poche battute e molte espressioni facciali – esterrefatte – degli astanti.
Lo svolgimento successivo perde rapidamente quello charme graffiante, andando a prediligere gli aspetti più meditativi della vita e il sopraggiungere del caotico vortice dei sentimenti, con un umorismo sotteso che non sa essere completamente funzionale. Sequenze che dovrebbero essere vive, ma risultano tutto sommato posticce.
Ona dovrebbe essere una Annie Hall del nuovo Millennio, ma Diane Keaton, con l’apporto di un’accurata sceneggiatura di Woody Allen, era un’altra cosa. Ramona, tolte tutte le buone intenzioni cinefile di Andrea Bagney, conferma che omaggiare troppo può essere poco fruttuoso, perché poi sopraggiunge il paragone con il modello e il giudizio può essere poco favorevole.
In questo caso, è utile citare la scena in cui Ona, al casting, si è preparata un monologo drammatico tratto da Io e Annie (Annie Hall, 1977), e quando il regista le fa notare che il film di Allen non è drammatico, lei risponde che prende spunto dai dialoghi del film. Ecco, basandoci su questo monologo alleniano, si può dire che Ramona non riesce a ricreare quel mood.
Poco funzionali anche le scene girate a colori, prima nella sequenze del casting, e poi nel lacerto del film girato. È un escamotage fotografico per evidenziare la finzione (colore come falsità, mentre bianco e nero come realtà) e la magia del cinema. Stesso trucco usato, con maggior profondità, da Kenneth Branagh in Belfast (2021).
