I dati del box office italiano inerenti ai primi quindici giorni di ottobre sono piuttosto chiari e incontrovertibili.
Rispetto alla prima metà di ottobre dello scorso anno, dove si entrava in sala solo con mascherina e green pass obbligatori, i nostri cinema hanno registrato un calo negli ingressi pari al 20.87%.
Se confrontiamo sempre lo stesso periodo con la prima quindicina di ottobre del 2019 il calo degli ingressi sale in modo vertiginoso, addirittura al -60% di presenze. Se evitiamo il confronto col periodo pre-pandemico, che in effetti oltre a essere impietoso ha poca ragione d’essere dal momento che il nostro mondo negli ultimi tre anni è cambiato in modo profondo e radicale, resta comunque il dato negativo rispetto al 2021 in cui il virus incideva in modo più ingombrante e significativo nella nostra routine quotidiana.
Sono in molti, tra gli addetti ai lavori e gli appassionati di cinema, a chiedersi da tempo che fine farà la sala in un prossimo futuro a causa di una crisi profonda e duratura che sembra ormai irreversibile.
Rispetto allo scorso anno in questo primo mese d’autunno mancano all’appello i blockbuster stranieri (leggi americani) capaci di portare al cinema le masse.
Se l’anno scorso a metà settembre era uscito Dune seguito a fine mese da No time to die, ovvero l’ultimo James Bond interpretato da Daniel Craig, e a metà ottobre da Venom – La furia di Carnage, quest’anno nello stesso periodo non troviamo nessun titolo capace di superare i tre milioni di euro. Se tralasciamo l’ottimo risultato del secondo capitolo dei Minions uscito il 18 agosto e giunto a 14,5 milioni di euro, dei film distribuiti tra settembre e ottobre quello che ha incassato di più è la riedizione del primo Avatar (intorno ai tre milioni).
Un dato che la dice lunga sull’attuale stato di crisi dell’industria cinematografica e sull’incapacità sistemica di riportare al cinema quella enorme fetta di pubblico che in sostanza non vi ha più rimesso piede da quando è scoppiata la pandemia. La situazione è grave e complessa, nessuno sembra trovare il bandolo di una matassa sempre più fitta e intricata.
Una cosa però è apparsa abbastanza chiara e evidente durante le giornate di Cinema in Festa, l’iniziativa promossa da Anica e Anec che dal 18 al 22 settembre ha consentito al pubblico di entrare nelle sale aderenti con un biglietto scontato a 3,50 euro. Se la partenza nei primi due giorni, complice una promozione pubblicitaria abbastanza lacunosa e deficitaria, non è stata poi così brillante e incoraggiante bisogna ammettere che negli ultimi tre giorni grazie a un sano e forse inatteso passaparola molti cinema hanno registrato il tutto esaurito o quasi nonostante l’evidente mancanza di titoli appetibili e di forte richiamo per il grande pubblico. Questo significativo incremento di spettatori durante i Cinema in Festa, iniziativa che verrà replicata fino al 2026 nei mesi di giugno e settembre, dimostra che molte persone sono pronte a recarsi al cinema, magari a vedere film che col biglietto intero non prenderebbero inconsiderazione, solo se il prezzo da pagare è minimo, quasi irrisorio.
Probabilmente in parte si tratta di un effetto causato dal proliferare delle piattaforme streaming, che consentono di vedere film e serie TV pagando un abbonamento mensile dai prezzi abbastanza contenuti.
Il discorso però cambia radicalmente per i film evento o presunti tale come l’attesissimo seguito di Avatar che quasi sicuramente trascinerà le masse nel buio di una sala senza badare troppo al prezzo del biglietto che per la visione tridimensionale potrà aggirarsi anche intorno ai 15 euro.
Chi scrive è pronto a scommettere che a James Cameron riuscirà anche questo miracolo, ovvero di far tornare di moda magari solo per un film, il suo, gli scomodi e impattanti occhialini (come dimostrano i dati della riedizione di Avatar visto in 3D da un’altissima percentuale degli spettatori). Anche gli innumerevoli e spesso mefitici film della Marvel (ogni riferimento a Thor: Love and Thunder è puramente voluto) sono percepiti come degli eventi, sebbene finiscano su Disney+ nel giro di un mese e mezzo dalla loro data d’uscita perché il pubblico di riferimento vuole goderseli nel miglior modo possibile, ovvero sul grande schermo, senza aspettare qualche settimana e incorrere nei minacciosi e temibili spoiler (percepiti dai più come la vera piaga del terzo millennio con buona pace di cambiamenti climatici, guerre, virus e pandemie). Quindi al momento appare abbastanza chiaro e palese che gli spettatori, intesi come le masse senza badare a quella specie in via d’estinzione che risponde al nome di cinefilo, si smuovono dal divano solo se il biglietto ha un costo contenuto, diciamo quasi regalato, o se escono al cinema i titoli evento, dove a quanto pare il prezzo da pagare per partecipare al fenomeno di massa del momento non rappresenta più un ostacolo insormontabile.
Come si evince da questa analisi a uscirne con le ossa rotte è il cinema di casa nostra, incapace da anni, ovvero dall’ultimo film di Zalone uscito a inizio gennaio 2020 poco prima che il nostro mondo venisse colpito e stravolto dal Covid-19, di attirare il grande pubblico in sala. In questi ultimi due mesi, senza la concorrenza dei blockbuster a stelle e strisce, sono usciti svariati film italiani ma nessuno è stato capace di far breccia negli spettatori.
A farla da padrone, si fa per dire visto gli incassi esigui, è il cinema d’autore che ultimamente sembra aver superato le commedie nel gradimento del pubblico. Gianni Amelio è primo in questa speciale classifica con Il signore delle formiche che fin qui, ovvero quasi a fine corsa, ha raggranellato 1,6 milioni di euro seguito da Siccità di Virzì con 1,4 milioni e da Dante di Pupi Avati con 1,2 a cui ben presto si aggiungerà Il colibrì della Archibugi che in soli due giorni di programmazione ha incassato mezzo milione di euro.
E la commedia? Il nostro motore economico, la nostra locomotiva capace fino a pochi anni fa di riempire le sale fino a farle scoppiare? Si direbbe non pervenuta, come dimostrano gli incassi modesti, per non dire nulli, di titoli recenti come Quasi orfano o Tutti a bordo (film senza un pubblico di riferimento promossi con trailer respingenti per non dire di peggio).
In questa nuova stagione cinematografica, partita a inizio agosto col freno a mano tirato e ancora in (vana?) attesa di decollare, si è sprecata una grandissima occasione, probabilmente irripetibile se si pensa che difficilmente in futuro avremo una finestra temporale così lunga e ampia senza titoli americani di richiamo.
La nostra industria ha perso una ghiotta e rara opportunità: la possibilità di intercettare l’interesse e il favore del pubblico di casa nostra.
È davvero un peccato, un enorme rammarico che paradossalmente sembra lasciare indifferenti chi fa e produce film in questo paese. Il disinteresse del pubblico nostrano nei confronti del cinema italiano è dovuto a diversi fattori, in primis all’aver rinunciato da decenni a pensare e produrre film di genere, limitandosi quasi esclusivamente all’opera d’autore e all’immarcescibile commedia che a lungo andare ha finito per tediare, se non sfiancare, a causa di una preoccupante mancanza d’idee e di originalità e a titoli che si somigliano tra loro, composti – più o meno – quasi sempre dallo stesso cast. Se il cinema italiano ha rinunciato da tempo ai generi cinematografici che lo hanno reso amato e seguito in patria e all’estero tra gli anni ‘50 e ‘70, il pubblico di casa nostra invece ha continuato a dimostrare interesse nei confronti di quelle tipologie di film che la nostra industria ha rinunciato, scientemente e colpevolmente, a realizzare. Forse, se negli ultimi quarant’anni il nostro cinema non si fosse limitato ai film d’autore e alle commedie prodotte in serie col medesimo stampino, la situazione attuale sarebbe leggermente meno critica e complicata. In altri paesi, per esempio India, Cina, Giappone e Corea del Sud, dove il cinema autoctono riesce a smuovere le masse la crisi delle sale è assai meno grave rispetto alle nazioni come la nostra dove ci si è completamente affidati ai blockbuster americani. Un’industria pavida e poco versatile come la nostra, ormai incapace – salvo rare eccezioni – di esportare il proprio cinema all’estero, dovrebbe a maggior ragione puntare tutto sul pubblico di casa, cercando di costruire un legame forte e indissolubile. Purtroppo la pigrizia del nostro sistema produttivo ha fatto sì che andassimo a sbattere dritti contro l’iceberg. Vedremo cosa ne sarà del cinema e di come cambierà nei prossimi mesi/anni la sua fruizione, ben consapevoli che se davvero la sala dovesse andare a morire, saremo noi gli apripista a livello internazionale. Di certo sarebbe un primato assai poco invidiabile.