My Name non è solo una storia di vendetta. È un ibrido, dove azione e divertimento si uniscono in un thriller in cui tutto non è mai scritto nero su bianco.
La serie ripercorre le vicende di Yoon Ji-woo, giovane ragazza, figlia di un noto criminale del clan Dongcheon che si trova in latitanza. La polizia lo insegue, e il suo assassinio porterà Yoon Ji-woo ad avvicinarsi al mondo del crimine chiedendo vendetta per quanto è accaduto. Per farlo dovrà entrare nella gang del padre, e infiltrarsi nella sezione narcotici della polizia coreana.
My name, la recensione
Recentemente sul Corriere della sera, tra un caffè e un altro, Massimo Gramellini pubblica un trafiletto dal titolo Il figlio del male, dedicato a Rocco Molè, noto boss calabrese che aveva passato alcuni anni in una struttura gestita da Don Ciotti, il simbolo più vicino all’antimafia nel nostro Paese. Questo fatto avrà stupito certi sostenitoridi un certo tipo di pensiero: chi nasce all’interno di quel mondo, sarà purtroppo destinato a quella sorte, senza alternative.
Quel ragazzo in verità un’opportunità di cambiare strada l’ha avuta, ma alla fine ha scelto di tornare sul percorso battuto dell’illegalità.
Come è possibile? E soprattutto, cosa c’entra questo caso con una serie coreana disponibile su Netflix? Ci arriviamo.
My name, diretto da Kim Jin-min, sceglie di partire da un momento preciso della storia. Ancora non si sa nulla della vita del padre. Eppure Yoon Ji-woo, una ragazza in procinto di andare a scuola, viene tallonata dalla macchina della polizia che vuole sapere che fine ha fatto il familiare. Da lì, gradualmente, il pubblico capisce che si tratta di un membro del clan Dongcheon, ma ci arriva in mezzo a episodi di bullismo inflitti alla ragazza dalle sue compagne di classe. Come se fosse marchiata dalle scelte del padre e non una persona degna di ascolto e comprensione. Yoon Ji-woo si sente fragile e isolata da tutti, anche da chi dovrebbe proteggerla come la polizia. Ma l’omicidio del padre è ovviamente l’episodio chiave, ad avviare quel meccanismo che la porterà sulla strada del crimine.
La scelta
E qui si arriva alla domanda posta dallo stesso Gramellini nel suo pezzo. Possibile che «il bene non sia contagioso come il male?». In realtà la risposta non è così semplice. Yoon Ji-woo un’alternativa al bene l’ha data, lasciando che le indagini portassero a individuare l’assassino. Ma come gli ultimi racconti coreani visti fino ad ora (da Parasite a Squid Game fino a Train to Busan), è l’individuo a scegliere dove andare. Perché non ci sarà nessuno a dare un sostegno nei momenti di difficoltà. La protagonista, interpretata da una tenace e carismatica Han So-hee, ha scelto di intraprendere quel percorso, nonostante il padre l’abbia fino a quel momento protetta dalla violenza della strada. E lo ha fatto perché era l’unico modo per scoprire la verità dietro alla sua morte.
L’identità
My Nameda qui prende i connotati del classico revenge movie. Il personaggio cambia pelle fino a farsi tatuare il marchio per essere un membro dei Dongcheon a tutti gli effetti. Choi Moo-jin, il boss di questo clan, era del resto molto legato a suo padre, a tal punto da spingerla in questa trasformazione che non è solo fisica (il taglio dei capelli), ma interiore. In quel gruppo, la paura e la fiducia non possono coesistere, perché sono i punti deboli che rendono più vulnerabili.
Ma non è tutto. Via via che la serie continua, Kim Jin-min sceglie di intrecciare vari linguaggi trasformandola in un ibrido che sfrutta tutte le potenzialità di ogni genere. C’è tanta azione, con scene di combattimento spettacolari che appassioneranno gli amanti del crime, e il thriller che ricorda gli ultimi classici come The Departed (che per altro si è ispirato a un film hongkonghese,Infernal Affairs).
Una colonna sonora elettronica graffiante lascia tutto in sospeso, in un equilibro che sembra sempre sul punto di perdere il proprio appoggio, tra una serie di eventi e di rivelazioni quando Yoon Ji-woo si troverà sotto copertura alla Narcotici.
My Name sa però come destreggiarsi con riprese davvero curate grazie a un uso prodigioso delle luci e di un montaggio dinamico che mostra ogni scena con estrema chiarezza. Una serie completa (come è nello stile coreano) e introspettiva, che si concentra su una ragazza che non cerca solo vendetta, ma deve fare i conti con la sua coscienza.
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