Anno: 2011 / Distribuzione: Fandango / Durata: 76′ Genere: Documentario / Regia: Carlo A. Bachschmidt
“Non erano giorni qualunque, non si era lì per caso
era un clima di festa
erano giorni a colori
ma si camminava per le strade di una città
buia, chiusa in cassaforte
ma la gente camminava e camminerà
per le strade della solidarietà.
Tutti quanti credevano
nella forza dei colori ma blu e nero han portato sangue, morte e distruzione […]”
Con queste parole il cantautore Luca D’Aversa dei Progetto T, uno dei più interessanti gruppi di Roma, ricorda nel brano “Colori” le giornate del G8 di Genova, vissute con grande entusiasmo ma ricordate con grande tristezza.
Di quelle giornate del Luglio 2001, anno tragicamente famoso non solo per i fatti in questione, dal giovedì 19 alla domenica 22, i telegiornali di allora ed i libri di adesso hanno raccontato solamente alcuni colori, i più oscuri, i più netti quindi facilmente inquadrabili.
Di quell’arcobaleno multicolore e multietnico di anime vive e brillanti, riunite per far sentire pacificamente e creativamente la loro voce, non c’è traccia se non nelle battute iniziali dei reportage; non c’è grande traccia, nei resoconti, dell’impegno e della vivacità di una popolazione che da tutto il mondo si è raccolta intorno ai “grandi8”, per manifestare il proprio dissenso, diverso a seconda delle situazioni ma tanto importante da convogliare in una città sul Mar Ligure così tanta, anzi tantissima, gente.
Ciò che rimane chiamando alla memoria i fatti di Genova sono le devastazioni inflitte alla città inerme dai Black Block, gli assurdi scontri tra la polizia e i manifestanti e la morte di un essere umano, colpevole o innocente poco importa, ma che sicuramente è morto troppo presto per la sua età, in quelle tremende giornate.
Il documentario di Carlo A. Bachschmidt parla di questo, utilizzando però due furbi espedienti: un titolo accattivante e la viva presenza dei testimoni di allora.
Sentendo le parole di Muli, Lena, Niels possiamo rivivere quei momenti come se fossimo anche noi lì, nelle manifestazioni, per le strade di Genova e nella tristemente celebre scuola Diaz. A parlare non saranno solo le loro parole, ma soprattutto le loro lacrime, i loro sguardi e i silenzi; i denti scheggiati e le cicatrici fisiche, coperte per esempio da una maglietta con la scritta A.C.A.B. (All Cops Are Bastards) che palesano altre ferite morali indelebili, raccontano al meglio i fatti che, come ogni macchia della storia del mondo, nessuno deve e può più dimenticare.
L’espediente del titolo accattivante Black Block risulta, però, piuttosto irritante non soltanto perché con queste parole si intende un argomento non molto approfondito in documentari di grande divulgazione, quindi di grande interesse per il pubblico meno avvezzo alla ricerca; il lato più subdolo di questa scelta è che queste due parole poste così, a caratteri cubitali, suggeriscono una tematica che nel documentario non è analizzata, inducendo all’equivoco qualora si incontrassero su un cartellone cinematografico o in libreria, sulla costolatura di un cofanetto; inoltre, aspetto peggiore, in questo modo si suggerisce aprioristicamente un giudizio che, consonante o divergente dalle singole opinioni, viene imposto allo spettatore già in testa al film e non in seguito alle accorate e sincere parole dei testimoni di quegli attimi.
Così le commoventi descrizioni dei testimoni “sopravvissuti” che raccontano gli assalti della polizia sono inutili. Racconti di come “un’orda di cinghiali strafatti di speed”, una marea nera, il vero blocco nero, che solo dopo aver sfondato la porta della scuola che accoglieva legittimamente i manifestanti esausti, rivela il colore di una divisa, i distintivi e i caschi blu che univocamente dovrebbero (quanto è triste usare questo condizionale) rappresentare la sicurezza e la giustizia perde di rilievo.
Quindi il Black Block del titolo NON si riferisce alla misteriosa organizzazione transnazionale che puntualmente, devastando e imperversando nei luoghi della protesta, agisce per spostare l’attenzione su se stessa e non sulle motivazioni che realmente portano tanta gente a manifestare.
Lo spettatore, ignaro di questo misunderstanding (voluto? ) o gioco di parole, conclude la visione di Black Block con una doppia rabbia: la prima, tracimante quasi alle lacrime, frutto del racconto di ragazzi con l’età dei nostri figli o dei nostri amici, che hanno subito indicibili angherie, subendo per giorni la sospensione dei diritti umani; la seconda, più intima e personale, derivante dalla sensazione di essere stati attirati meschinamente alla visione di questo documentario, pensando di vederne invece uno che coraggiosamente indagava su una realtà che troppo spesso viene bollata con un colore ma che, come il nero stesso, a ben vedere ne racchiude tantissimi altri e di diversa natura.
Al posto del coraggio si è puntato all’effetto scenico.
I testimoni, e chi vuole ricordare, si merita di meglio.
Giovanni Villani
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