Abdellatif Kechiche, dopo l’ottimo Cous Cous (Le grain et le mulet, 2007), torna con un film che mette in scena la vita di Saartjie Baartman (la venere ottentotta), personaggio vissuto tra la fine del settecento e gli inizi del secolo successivo, confrontandosi, attraverso una storia emblematica, con il tema dell’oppressione. Lo stile, pur mantenendo in parte i caratteri del precedente lungometraggio – la mdp insiste sui volti, cercando quasi di frugare tra le pieghe della pelle i sentimenti più nascosti dei personaggi – si rinnova per restituire adeguatamente il periodo storico rappresentato, senza però farsi risucchiare dalla smania della ricostruzione, e non ostacolando, quindi, il processo d’immedesimazione dello spettatore. I primissimi piani dello sguardo di Saartjie (Yahima Torrès), i cui occhi sono velati da una realtà oggettualizzante che misconosce sistematicamente i tratti identitari, permettono l’emersione dei segreti di una storia mai definitivamente chiarita dalle varie fonti che l’hanno registrata.
Venduta come schiava in Sudafrica, Sara – così successivamente sarà ribattezzata la Venere Nera– fu trasferita dal ‘proprietario’ a Londra, dove, per le particolari fattezze fisiche (la bassa statura e, di contro, una straordinaria voluminosità delle forme), venne esibita come un fenomeno da baraccone nei vari spettacoli itineranti. A parte la questione razziale, che, evidentemente, grande peso ebbe nella vicenda, ciò che maggiormente disturba è la distorsione che lo sguardo dell’Altro provoca nella percezione che la protagonista ha di sé, negandole la possibilità di esprimere quelle capacità (il canto, la danza e una certa intelligenza) che le avrebbero consentito di intraprendere un processo di emancipazione.
Dopo essersi spostata a Parigi, dove divenne una delle principali attrazioni dei salotti libertini, Saartjie, che nel frattempo era stata protagonista di un processo in cui si tentò di far emergere la sua condizione di schiavitù (ma che la diretta interessata – e questo è davvero sconcertante – non riconosceva come tale), fu sequestrata da una masnada di ‘scienziati’ guidata da George Cuvier (François Marthouret) per essere studiata in quanto ritenuta un esemplare umano dalle caratteristiche anatomiche uniche (in particolare per lo sviluppo eccezionale degli organi genitali). L’ottusità e la freddezza con cui viene passato al setaccio il suo corpo testimoniano di un’oppressione che, oltre ad essere già esercitata nei quotidiani rapporti di dominio, viene inflitta pure da un atteggiamento epistemologico becero e, anch’esso, coloniale.
Saartjie, sospesa come Edipo a Colono tra la mostruosità e la divinità, è oggetto di scherno e di desiderio (finirà la sua esistenza facendo la prostituta), e per l’unicità della sua condizione diventa un vero e proprio feticcio, tanto che, dopo la morte, fu realizzato un calco del suo corpo, fino a poco tempo fa esposto al Musée de l’homme di Parigi.
Abdellatif Kechiche, anch’esso ossessionato dallo ‘sguardo altrui’ (di cui ampiamente si occupò Sartre ne L’Être et le néant), che poi è quello del comando, di ciò che, mutuando il gergo deleuziano, è “maggiore”, realizza un’opera interessante, mai noiosa, nonostante le due ore e mezza di durata.
Forse ciò che risulta meno convincente è proprio l’aver preso le mosse da una vicenda realmente accaduta (elemento, questo, di cui il regista è assai consapevole), perché, pur avendo ridotto al minimo, con riferimento alla rappresentazione, la ridondanza del fattore storico, è proprio la specificità dello stile dell’autorea risentire fortemente di una tipizzazione che oscura, in parte, l’originalità, la freschezza e, soprattutto, la potenza espressiva dei precedenti film. Comunque, non si può frettolosamente obliterare Venere Nera, come un film meno riuscito; piuttosto è più opportuno registrare il coraggioso cambiamento di rotta.
Insomma, nonostante tutto, ce ne fossero di Kechiche, ce ne fossero….
Luca Biscontini
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