Il mio negozio, un afoso pomeriggio di giugno, colonna sonora “Libera me Domine” canto gregoriano anonimo.
Dunque, come iniziare un argomento così spinoso, come quello che il grande capo mi ha affibbiato senza sembrare banale, opinionista, bacchettone o folkloristicamente ribelle?
Non credo ci sia un modo corretto e la materia trattata sfiora talmente tante sensibilità e argomenti che in qualunque modo decida di muovermi, ci sarà sempre qualcuno che lo considererà il modo peggiore.
Dunque, visto che non mi pagano per piacere alle masse (anzi non mi pagano affatto) e visto che piacere alle masse non è mai stato il mio obiettivo nella vita, nemmeno con l’uso della psicologia inversa, penso sia meglio affrontare il tema delle cosiddette “bestie di satana” , dei cui delitti ricorre il ventennale, semplicemente esponendo il mio pensiero in base al materiale che ho visionato ed esponendo le mie analisi sia sui documentari che sui fatti come sono riportati.
Non vorrei che qualche lettore tra i pochi che mi seguono con una certa assiduità, visto il mio spirito polemico e il mio anticlericalismo conclamato, arrivasse all’errata conclusione di una mia qualche simpatia con questa setta, se così vogliamo chiamarla.
Lo dico subito, tra le mie conoscenze ci sono preti ortodossi e cattolici, nipoti di rabbini, buddhisti, induisti, neopagani, wiccani e si… anche satanisti.
Sarà che la mia personale sensibilità di ateo e materialista mi permette di guardare ogni convinzione religiosa con il medesimo distacco e il medesimo rispetto, finché queste convinzioni si mantengono rispettose della mia.
Di sicuro quando vedo qualcuno che celebra riti in onore del “grande avversario”, la mia posizione di partenza non è intrisa di bigotta supponenza.
In fondo per me non sono molto diversi da coloro che celebrano ogni domenica la santa messa, lo shabbat il sabato o che si lavano nel sacro Gange.
Ovviamente la mia comprensione finisce laddove qualcuno non comincia ad uccidere la gente a martellate.
A quel punto non ti vedo in maniera diversa da chi lapida donne solo perché adultere, brucia eretici sul rogo o taglia gole di infedeli a favore di telecamera.
Sei una merda.
È un po’ brutale dirla così, ne sono consapevole e me ne dispiaccio, ma ho misurato le parole attentamente e merda è la sola che trovo acconcia alla guisa.
Non me ne vogliano i puristi del bell’eloquio.
Detto questo, quando il grande capo mi ha lasciato questa patata bollente, lo ha fatto sicuramente in buona fede, vista la mia inclinazione per l’horror.
Certo, mi piacciono gli orrori, ma quelli finti!
Non nego che andarmi a documentare sulla cronaca e poi sorbirmi di seguito i due documentari che ho scelto di trattare in quanto per me colgono al meglio lo spirito di tutta la vicenda, mi ha lasciato spossato.
Tra la visione dei filmati e questo articolo sono passati due giorni che sono serviti per cercare di riempire in qualche modo quella grande sensazione di vuoto che l’immersione in quei fatti mi ha lasciato.
E uso anche in questo caso la parola vuoto, con la massima attenzione.
Perché quello che si evince, in particolare dal primo documentario “Le bestie di satana” scritto da Luciano Palmerino, per la regia di Valerio Nicolosi, è che alla radice di tutta la scia di sangue ci sia proprio un grande nulla.
Di sicuro il satanismo, inteso nel senso più dottrinale ed esoterico del termine c’entrava poco, pochissimo.
Il documentario è molto curato, se vogliamo accattivante, non mancano i tocchi patinati come la scelta delle musiche o le inquadrature di Mario Maccione, membro della setta il cui volto è messo in ombra con un cappuccio.
Una scelta inutile ai fini della privacy, visto che basta digitarne il nome su google e la rete ci sommergerà di ritratti dell’interessato, ma certamente utile a creare una certa atmosfera fin dalla sequenza di apertura.
Così come è di dubbio gusto la scelta scenografica di far accomodare il Maccione, voce narrante de facto, in una scenografia pacchianamente “satanica” con tanto di trono infernale.
A prima vista potrebbe sembrare uno di quei documentari “leccati e perbene” confezionati ad uso famiglie per canali come Discovery Channel che non ho mai potuto sopportare.
Eppure, la mano italiana si vede nella realizzazione del prodotto e lo salva dalla americana banalizzazione che contraddistingue la quasi totalità della documentaristica mainstream a stelle e strisce.
Ha una crudeltà intrinseca, un vuoto interiore, un pessimismo cosmico per immagini e taglio che un americano difficilmente sceglierebbe o saprebbe realizzare e ancor più difficilmente riuscirebbe a capire.
Fin dalle prime sequenze che ci raccontano in falsa soggettiva il territorio in cui nel gennaio del 1998 le bestie di satana passano dal satanismo acido, banale scusa per giustificare a se stessi l’assunzione di stupefacenti a scopo ludico, all’essere assassini.
Dietro un montaggio rapido, sostenuto a tappe dalle interviste di inquirenti e omicidi, la raffigurazione di quel bosco in cui Fabio Tollis e Chiara Marino trovarono la morte non ha niente di trascendente.
Le immagini infine ci mostrano nella sua cruda desolazione un bosco, uno dei tanti che costellano le provincie italiane, una volta benestanti, intriso di noia, alienazione, senso di vuoto.
Una cupa disperazione che solo chi ha camminato per quei paesi ingrigiti da una cementificazione selvaggia, dove chiunque può allarga di qualche metro quadro la propria casa per avere una vetrina con cui mostrare agli altri un benessere che non c’è, una realizzazione mancata, può capire.
Una provincia costruita sul più antico perbenismo italico, bigotto e conservatore, a cui hanno dato una verniciata di individualismo e consumismo per farla apparire più moderna.
Posti dimenticati da Dio, in cui persino il diavolo si sentirebbe depresso.
E un’immagine così piena e fedele di quel territorio la può rendere solo chi ha respirato a lungo quell’aria satura di nebbia e scarichi industriali.
Di sicuro non è una scelta vincente per un docufilm da prima serata, ma conoscendo quella realtà non si riesce a cancellarla nemmeno sotto quintali di cerone teatrale.
Allora ecco che un prodotto, nato per essere artificiale e di consumo, diventa tragicamente vero e crudele.
Conoscendo l’odore di quei luoghi, si dà un senso alle parole dei protagonisti e alla loro confusione.
Alla mancanza di razionalità e metodo delle loro azioni.
Capiamo l’importanza di evadere dal paesino e scappare nel posto sofisticato della grande città.
Il Midnight pub di Milano, pub metal del capoluogo lombardo e quartier generale delle bestie di satana.
Un luogo simile a milioni in cui sono stato anche io, sorridendo delle pacchiane scelte di arredo sullo stile casa degli Addams.
Eppure a differenza di me che ne ho sempre visto il lato ironico e provocatorio, Maccione, Volpe e gli altri riuscivano a prenderlo sul serio e a creare intorno a quell’estetica un mondo alternativo in cui scappare per sfuggire al vuoto delle loro vite.
Non voglio dare giudizi o giustificazioni.
Da più di dieci anni ho abbandonato la città per vivere nei piccoli centri intorno alla capitale e non mi sono trasformato in assassino né ho cambiato le mie convinzioni agnostiche.
Però diciamo che posso capire il senso di disperazione che può cogliere quando ci si trova intrappolati in posti del genere non per libera scelta.
La diversità ti pesa come uno stigma e hai la sensazione di essere rigettato anche dalle pietre di quei paesini, oltre che dalle persone.
Il che non è totalmente falso.
Lo possiamo desumere dalla vastità di luoghi comuni che inquirenti, criminologi e specialisti sciorinano su satanismo, occulto e musica “strana”.
Una confusione sulla materia pressoché totale e arcaica, presa in prestito da brutti libri pseudo-educativi di qualche pedagogo post-maccartista anni ‘60.
Non devo dirvi io a cosa mi riferisco, basta beccare la giornata giusta su Rai Storia e capirete da soli.
E capirete pure perché, con questa mentalità, agli inquirenti ci siano voluti 6 anni e un grossolano errore di due ragazzotti ubriachi per venire a capo di tutta la vicenda.
Perché parliamoci chiaro, se Volpe e Ballarin non avessero inanellato una serie di scivoloni grotteschi nel pianificare e compiere l’omicidio della terza vittima accertata, Mariangela Pezzotta, dubito che li avrebbero mai presi.
Comunque, in modo probabilmente involontario, il documentario di Valerio Nicolosi, va molto oltre la spettacolarizzazione con cui era stato pensato e si rivela un utile strumento per capire bene il dipanarsi di una tragedia e l’ambiente in cui si è sviluppata.
A fargli da contraltare come secondo docufilm ho scelto “Le bestie di satana – ultimo incontro” scritto da Ercolani/Rondolino per la regia di Paolo Fattori.
Questo film, che ha la pretesa di essere più vero del vero, è in realtà incredibilmente più posticcio del precedente che era stato pensato con una buona dose di fiction al suo interno.
Già dal titolo, l’ultimo incontro, che sembra preso in prestito da qualche saga di Bruce Willis, capiamo come i registi vogliano giocare sulla spettacolarizzazione della cronaca nera, per dare in pasto ai bassi appetiti del pubblico ciò che la morbosa fregola delle persone perbene ha bisogno di ascoltare mentre è sul divano buono per sentirsi rassicurata dalla propria normalità.
Sull’ammantare di mistero e fantastico, una storia fatta di anfetamine, gelosie e noia.
Dopo la sigla, guarda caso sostenuta dalle note di Marilyn Manson (mai nessuno che usi i Virgin Prunes, tanto per far qualcosa di diverso), una fredda e altera voce femminile ci riassume in pochi minuti tutta la vicenda giudiziaria dal tragico inizio fino al suo epilogo.
Segue una breve sequenza del padre della prima vittima, Fabio Tollis, con primissimo piano del bacio sulla lapide del figlio e la nuova sequenza si riapre all’ingresso del carcere di Ivrea, dove avrà luogo un surreale faccia a faccia tra il padre della vittima e Fabio Volpe, il suo assassino.
Al di la del rispetto per le vittime che ho installato nel mio database neuronale, trovo di pessimo gusto tutto il dialogo, il montaggio, le luci, i primi piani sulle espressioni così come le frasi e le pause.
Non sono un cristiano, ma credo fermamente nel pensiero di Cesare Beccaria, credo nella forza delle parole, nel valore della riabilitazione e nella possibilità di crescita e miglioramento delle persone, anche delle peggiori.
Se il signor Tollis e il detenuto Volpe volevano un incontro, bisognava darglielo.
Su questo non ci piove.
Ma altresì sono fermamente convinto che tutto ciò che i due si fossero detti sarebbe dovuto rimanere tra loro.
Per rispetto al dolore di un padre e per non compromettere l’eventuale riabilitazione di un colpevole.
Perché dunque ho scelto di consigliarvi questo documentario?
Perché “L’ultimo incontro” non parla della storia delle bestie di satana, ma di noi.
“Chiunque desideri cacciare i mostri, deve star bene attento a non divenire un mostro egli stesso” diceva Nietzsche e noi guardando questo film dovremmo ben tenere a mente il monito di questo grande pensatore.
Assodato che l’angelo caduto con tutta la vicenda c’entrava pochissimo, allora dovremmo chiederci di chi sono figlie le bestie di satana.
Temo che per avere la risposta non si debba far altro che guardarsi allo specchio.
Quel film ci racconta tutta la storia esattamente come noi ce la vorremmo sentir raccontare, con il nostro bagaglio di sovrastrutture sociali, di totem e tabù, di pregiudizi.
Abbiamo dato vita ad una società che idolatra certi valori, ma questi cosiddetti valori ci abbrutiscono e allora, come nei gruppi primitivi, abbiamo bisogno di capri espiatori, figure che incarnino le nostre colpe sociali facendoci sentire migliori.
Ma se andiamo a grattare dietro le candele e i drappi neri, non troveremo altro che il frutto delle nostre pulsioni.
Se vogliamo capire perché dei ragazzi hanno fatto quello che hanno fatto, cosa li ha trasformati in feroci carnefici, dobbiamo capire anzitutto cosa ci spaventa tanto in noi stessi da dover scomodare addirittura Lucifero in persona per sentirci delle persone migliori che non farebbero mai quello che Volpe e soci hanno fatto.
Un documentario che al di là dello scarso valore artistico è un utilissimo strumento per un esame di coscienza collettiva.
Detto questo torno ad occuparmi del prossimo articolo che ho in preparazione, fatto di zombie fintissimi, sangue al sapor di frutti di bosco, comparse sudatissime dentro rabberciati costumi da non morto che chiedono “a dottò…. Ma come se movono li zombi?” e dalla regia la voce al megafono del mio scontroso, amabile e rassicurante Fulci rispondere con “mavaffanc…”
Colonna sonora – The number of the beast degli Iron Maiden.
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