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Underground

The keeping room di Daniel Barber

The keeping room: il coraggio femminile al tempo della guerra

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Più la guerra sarà crudele, più sarà breve“. Tale lapide scolpita/attribuita a W.T.Shermanil conquistatore di Atlanta nella marcia verso il mare, circoscrive con feroce approssimazione i confini psicologici – a modo loro, austeri e terribili – di un’opera dolente come The keeping room. 1865, Stati Uniti meridionali. La Guerra Civile è agli sgoccioli. Un lustro scarso è bastato per accatastare sui campi, nelle retrovie, nelle smisurate pianure, migliaia tra cadaveri, mutilati, dispersi, riottosi e sbandati di ogni risma. Territori interi stravolti dal passaggio di eserciti in grado di avvalersi delle disponibilità materiali messe a disposizione da un apparato produttivo già nella sua adolescenza industriale. Innumerevoli famiglie lacerate dalle separazioni forzate e dalla prospettiva di lutti inevitabili. Giovinezze troncate di netto sul limite di epifanie che rimarranno inesplorate o, peggio, irraggiungibili chimere…

Nella desolazione di una terra che, all’interno delle sue non poche contraddizioni, custodiva un grumo di innegabile meraviglia (canta il John Brown’s bodyThe South… The honeysuckle… The hot sun…/The taste of ripe persimmons and sugar-cane…/The cloyed and waxy sweetness of magnolias…White cotton, blowing like a fallen cloud…//”Il Sud… Il caprifoglio… Il caldo sole…/Il gusto del loto maturo e della canna da zucchero…/La pesante e cerea dolcezza delle magnolie/Cotone candido, turgido come una nube caduta…”), sopravvive, ai margini di un conflitto le cui propaggini incombono sempre più d’appresso, l’ostinazione matrilineare di tre giovani donne, gruppo familiare asimmetrico e residuale – Augusta/Marling, sorella maggiore e novella mater; Louise/Steinfeld, sorella minore e Mad/Otaru, ex schiava (“Siamo tutti negri, ormai”, apostrofa Augusta alla sorella recalcitrante al dissodamento dei pochi scampoli di proprietà, ancora di pertinenza, a suo dire, delle esclusive fatiche di Mad) – pian piano ritornato, visto l’isolamento, l’angoscia crescente dei giorni, la mancanza dell’elemento maschile impegnato su chissà quale fronte, al passo di una resilienza ancestrale circadianamente ritmata; ai limiti dell’indigenza ma ferrea nella sotterranea determinazione a durare; parca nei gesti e pressoché sgombra di parole: silenziosa e inquieta sullo sfondo impassibile e monumentale di una Natura (alberi immensi da cui far penzolare, dispettosa, una altalena; fitti boschi che si ammantano di luce bluastra dopo il tramonto; sentieri nascosti da intrichi di vegetazione fittissima come se, davvero, non sia mai esistito altro che una sola, infinita, estate) che, al solito, nel suo tempo-senza-tempo, indifferente e placida, trova sempre sé stessa, assimilando qualunque fremito o frenesia che all’accordarsi al suo ciclo presume di non arrendersi.

Tregue fragili, interludi malickiani (sentori di Days of heaven, per dire. Quindi, più Almendros che Lubezki, nel lavoro cromatico di M.Ruhe. Meglio: più Surtees di The outlaw Josey Wales e disparate suggestioni da Homer, dalla ritrattistica di Eakins, dalla ricerca fotografica di Brady e da quella illustrativa di Remington), destinati a infrangersi, comunque, sugli scarti impazziti del conflitto incarnati dai balordi-disertori Moses/Worthington ed Henry/Soller, animali bradi dediti, nel nonsenso di un vagabondaggio senza meta, all’alcool, all’omicidio, allo stupro. “The keeping room” prende così la via di un dramma inevitabile e anch’esso archetipico – quello tra Natura (ossia parziale ritorno al di lei stato) e Cultura (in una delle sue espressioni tanto atroci quanto insopprimibili, a dire la Guerra e la sua costellazione di follie) – in cui Augusta – antifrasi di rara efficacia – sveste mano mano, letteralmente, i panni di una Venere afflitta e parzialmente repressa, per indossare quelli di un’Atena indomita che si pone a capo del suo micro esercito, tetragona nell’intendimento di non arrendersi a niente e a nessuno e di difendere gli smarriti ma solidali affetti. Coerentemente, il paesaggio, agreste, idilliaco nel suo enigma paziente e irriducibile, lascia il posto al crepuscolo e agli interni, in cui i volti si fanno freddi, terrei, i respiri concitati e le frasi spezzate; la grande scalinata che conduce al piano nobile non si schiude più (come, ad esempio e almeno all’inizio, in “The beguiled” di Siegel) sui ristori dalle ristrettezze quotidiane o sui temuti/fantasticati unknown pleasures di un desiderio perennemente negato ma arretra a baluardo ultimo dell’incolumità prima dell’irreparabile; evoca, nella spossata tristezza di memorie inconsolabili, altri luoghi, antri separati, ripostigli, dove si sono consumati orrori vili e reiterati a cui sovrapporre, come alimentando una maledizione irredimibile, quelli della ritorsione e della fatalità, fino alla negazione di sé, fino alla mimesi con un mondo che sa rispecchiarsi solo nella maschera implacabile di un Generale in armi.

Alessandro D’Orazio

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  • Anno: 2014
  • Durata: 95'
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: USA
  • Regia: Daniel Barber
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