Presentato a Venezia 76 come documentario sulle circostanze poco chiare della morte del Segretario delle Nazioni Unite Dag Hammarskjold, Cold Case Hammarskjold di Mads Brügger si presenta piuttosto come un farraginoso ma coinvolgente spy movie dove i protagonisti sono reali anziché personaggi di fantasia. Protagonista è lo stesso regista (anche sceneggiatore), intento a dettare la sua storia a due diverse segretarie, Clarinah e Saphir, in due distinti luoghi, fondamentali per l’investigazione, Cape Town in Sudafrica e l’hotel Memling a Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, insieme all’investigatore privato svedese Goran Björkdahl, comprimario ed ‘eroe’ del documovie.
Il film inizia dove la vita del Segretario Onu finisce: con la scena tratteggiata (letteralmente disegnata) dell’aereo precipitato sui cieli di Ndola, nell’ex Rhodesia. Da qui inizia il racconto di Mads Brügger, la storia di quel che a suo dire potrebbe essere il più grande caso insoluto di omicidio del mondo; storia che il Regista descrive dividendola in capitoli come se lo stesso film fosse un libro da sfogliare; un libro di storia innanzitutto, ben corredato da documenti ed immagini di repertorio, ma anche un fumetto, con vignette particolareggiate che descrivono laddove la documentazione non arriva. Ma l’incidente aereo che apre la narrazione, quello che uccise nel 1961 il politico svedese Dag Hammarskjöld, fu veramente un incidente, oppure dietro la morte del Segretario Generale dell’ONU si cela un complotto internazionale? Questo il perno attorno al quale si svolgono le indagini di Brügger e Björkdahl, che porteranno a scoperte sorprendenti.
Facendo cenno brevemente alla storia del Congo, dobbiamo ricordare che l’ex colonia Belga (possedimento personale del re dal 1884, divenne parte dell’impero coloniale belga nel 1908) raggiunse l’indipendenza nel 1960, attraversando immediatamente una profonda crisi interna, rappresentata da un lato dallo scontro tra i sostenitori del presidente del Congo Joseph Kasa-Vubu e quelli del primo ministro Patrice Lumumba, e dall’altro da una estesa serie di disordini e sommosse nella maggior parte del paese, sfociate in aperte rivolte armate e tentativi di secessione da parte di varie province, sostenuti più o meno apertamente dal governo belga. In effetti, già per la fine del 1960 il Congo era andato incontro a una totale disgregazione territoriale e politica.
In questo stato di crisi si innesta la storia del Segretario delle Nazioni Unite Dag Hammarskjöld, nemico dell’imperialismo coloniale in contrasto con le altre potenze imperialiste presenti nell’Onu, in particolare Francia, Gran Bretagna e Russia, sostenitore dell’indipendenza del Congo e contrario alla secessione della provincia del Katanga, ricca di risorse minerarie, sostenuta invece dalla grande compagnia mineraria Union Miniere. L’intervento delle Nazioni Unite, sotto la sua guida, divenne ben presto da pacifico ad armato; sottostimando le forze ribelli, costituite in gran parte da mercenari europei ben addestrati, armati dalla società mineraria, i Caschi blu ONU subirono una pesante sconfitta nel settembre 1961. Il Segretario delle Nazioni Unite Hammarskjöld si stava quindi recando a Ndola per negoziare un cessate il fuoco con il regime katanghiano di Ciombe quando, nella notte tra il 17 ed il 18 settembre, l’aereo su cui viaggiava si schiantò al suolo.
Proprio dal luogo dello schianto iniziano le ricerche di Brügger e Björkdahl, moderni Indiana Jones armati di metal detector, per spostarsi poi al vicino aeroporto ed allargarsi a cercare testimonianze nella zona circostante; qui i due protagonisti, in base alle loro scoperte, arrivano a formulare diverse ipotesi: che l’aereo sia precipitato perché colpito da un secondo aereo più piccolo, che ci fosse una bomba a bordo, addirittura che il Segretario delle Nazioni Unite fosse in realtà su una jeep ed ucciso separatamente nella foresta, ipotesi avvalorata da una placca di metallo con fori di proiettile apparentemente presa dall’aereo di Hammarskjöld ma in realtà proveniente da un veicolo. L’ipotesi che si fa strada è però quella di una bomba inesplosa e soprattutto quella del secondo velivolo, avvalorata anche dalle testimonianze delle persone di colore mai intervistate all’epoca del fatto, del cui pilota Regista ed investigatore seguono le tracce.
Ma le loro estese indagini aprono anche nuovi scenari; non solo sul presunto omicidio di Hammarskjöld ma soprattutto su quella che si rivelerà essere una organizzazione paramilitare, la South African Institute of Maritime Research (SAIMR), che avvalora non solo l’ipotesi del complotto internazionale ma svela un progetto segreto per colpire la popolazione di colore: un laboratorio nella giungla dove veniva studiato il virus dell’HIV, dove è stato addestrato tra gli altri il dottor Maxwell, ex mercenario in Congo ed autore del manoscritto “The story of my life”, e di cui emerge l’operato presso studi medici, gratuiti per la gente di colore, in cui iniettava loro il virus dell’HIV.
Cold case, caso freddo; come ben sa chi segue l’omonimo telefilm, è il termine usato per definire le investigazioni su casi irrisolti ma vecchi di anni, ma nel documentario di Mads Brügger assume un senso più ampio: il cold case Hammarskjöld ci immerge infatti in un intero periodo della nostra storia più recente, descrive a chiare linee gli anni della decolonizzazione, sostenuta dall’Organizzazione delle Nazioni Unite nel suo complesso ma non dagli stati imperialisti che ne facevano parte, l’Africa dell’apartheid, l’ingerenza degli stati ex coloniali nella politica delle loro passate colonie e più in generale degli stati dell’Africa australe, il coinvolgimento della CIA, in un quadro a mosaico dove ogni tessera ha il suo posto.
Il risultato è un film interessante e coinvolgente, la scoperta dell’organizzazione paramilitare rimanda al recente ricordo della visione di “Attacco al potere 3 – Angel has fallen”, ma, a differenza di quello, appare complesso nel suo “aggiungere ingredienti al calderone”, mentre la miriade di nomi e testimonianze sfuggono ad una visione meno che attenta e si perdono nel “mescolare la zuppa”; i tanti fili messi a disposizione si riconnettono solo alla fine a formare una trama complessa, come un farraginoso spy movie, con protagonisti a tratti ironici che alleggeriscono la connotazione documentaristica del lungometraggio, resa affascinante dalla fotografia di Tore Vollan e dalle musiche di John Erik Kaada.
Michela Aloisi