Certo, Il signore della mosche e Lost ma anche una peculiarità dei vecchi cartoni animati giapponesi: la perdita dei genitori. Eccetto alcuni felici casi, le figure genitoriali rappresentavano un elemento di disturbo per le rocambolesche avventure dei protagonisti. Non potevi essere un personaggio di rispetto se non avevi genitori despoti, da ritrovare o semplicemente volati a miglior vita. The Society, serie Netflix ideata da Christopher Keyser, inizia proprio con la misteriosa scomparsa di tutti gli adulti (e di tutti i bambini) da West Ham, una graziosa cittadina del New England. Cosa fare quando sei un teen-ager e d’improvviso ti ritrovi senza gli adulti? Ovviamente, dopo un primo momento di sconcerto nonché di smarrimento, non resta che scatenarsi ed organizzare un giorno sì e l’altro pure quelle tipiche feste americane che tanto invidiamo. Supermercati liberi, auto della polizia, birra a fiumi e pulsioni da sfogare. Fino a qui si potrebbe pensare che The Society non dica nulla di interessante ma poi episodio dopo episodio, la serie assume un aspetto più adulto. Smaltita la sbornia iniziano a sopraggiungere interrogativi e quello che era un simpatico gioco via via assume le tinte di un dramma. Sorgono le responsabilità (forse è meglio razionare il cibo? Qualcuno è armato?), si creano fazioni e le mere attività ludiche lasciano il posto ad una argomentazione di rilievo, vale a dire l’organizzazione di una società e l’inevitabile sostegno di una gerarchia. Già perché ogni teoria politica, per poter funzionare, deve essere connessa con la realtà. Non si può eludere il problema.
I ragazzi di West Ham devono fare i conti con quella che è diventata la New Ham. Una piccola comunità che deve quanto prima assumere un pensiero politico; ne vale la coesistenza umana. La cittadina diviene allora un mondo, un mondo che però è un circuito chiuso dove non c’è spazio per un umanesimo propriamente detto. Non c’è la possibilità di pensare al mondo e ai suoi schemi, c’è solo una piccola comunità e devono esserci nuovi schemi per giunta necessariamente primitivi. Non vi è ancora spazio per una idea politica moderna. La dignità e le responsabilità individuali sono perennemente in bilico. Costantemente soppesate da animi troppo vergini. Troppo ancorati agli istinti e alla frenesia della giovane età. Ci sono i ragazzi, non c’è una istituzione politica come lo stato. Questo è uno dei primi aspetti degni di nota di The Society, la costruzione di un’etica senza stato. La messa in atto di una giustizia senza una legge condivisa. L’idea politica che si viene a creare è soffusa, probabilmente illusoria. Si potrebbe dire, come Machiavelli, che l’ideologia soggiace all’arte della dissimulazione. Una politica dell’apparire e non dell’essere. Non a caso i momenti di crisi si avranno con lo smascheramento di fatti. In The Society il nascosto è il personaggio invisibile. La verità nascosta sul perché gli adulti siano scomparsi, il celare relazioni o il fingerle di averle, il nascondere la gravidanza, il nascondere prigionieri. E proprio sul tema del nascondere che The Society palesa il suo episodio migliore (il settimo, intitolato Le regole di Allie), tutto congegnato in crescendo, costruito attorno a quella che per il sottoscritto è il personaggio e l’attrice migliore del gruppo (Olivia DeJonge). Nascondere per acquisire consenso. Ed in effetti in una comunità così piccola il camuffare è l’opzione migliore, per la sopravvivenza. La logica umanistica è tenuta in bilico dalle passioni e dalle necessità sovente di natura violenta.
Dimenticarsi perciò della natura e della società come elementi in cooperazione verso un equilibrio sociale e normativo. La stabilità è fittizia, asserisce il realismo del sopracitato Machiavelli. La stabilità è pericolosamente fondata su un’attività teoretica astratta: poca esperienza delle cose presenti e debole notizia di quelle antiche. The Society ha il pregio di raccontare bene questi elementi e questi paradossi, il pensare alla democrazia come ad un qualcosa sì di essenziale ma anche di impossibile. L’individuo necessita sempre di appropriazione in quanto dominato soprattutto da impulsi naturali atti alla conquista del potere. Il potere su una comunità e il potere sui singoli. Il conflitto e l’antagonismo sono destinati a riaffiorare sempre. Ecco allora lo strisciante sorgere di figure ambigue (anche i “buoni” lo sono) che nella serie non mancano, incluso il conclamato cattivo di turno ottimamente reso dallo sgradevole personaggio di Campbell (Toby Wallace) al quale fa da contraltare la volenterosa Kelly (Kristine Froseth). La serie targata Netflix si potrebbe definire un teen-drama, ma sarebbe riduttivo. Se i primi episodi hanno ovviamente tutte le peculiarità teen, successivamente (dopo alcuni momenti che appesantiscono episodi di una durata di 50 minuti ciascuno) i temi si fanno nettamente adulti. I personaggi sono molteplici ma la durata e la scrittura riescono pian piano a farceli rimanere impressi. Da evidenziare qui un colpo di scena francamente sorprendente riguardante uno dei personaggi principali, cosa che fa intuire che siamo di fronte a qualcosa di ben altro spessore. Fattore che palesa una netta linea di demarcazione verso il “da qui nulla sarà come prima”. Un “prima” che nasce con un cattivo odore, quel fetore che apre il primo episodio, un fetore che poi diviene il battesimo di una nuova comunità, una comunità di ragazzi che forse sono stati pesati su una bilancia e che sono stati trovati mancanti. Una comunità che deve crearsi un leader, un conforto religioso, dei guardiani, un raffazzonato supporto medico. Possiamo convivere? Quale è il prezzo da pagare? In definitiva quindi sono molti i pregi di The Society. Una comunità nuova che in fondo è anche la nostra in quel suo raccontare come il male sia parte di noi e di come la violenza possa divenire un elemento imprescindibile soprattutto se nell’altro alberga la paura.