Slang colorito. Ragazzi di colore in strada. Spavaldi. Fin troppo spavaldi. Qualcuno di loro si lascia tentare dall’idea di sfondare il finestrino di una macchina, un po’ per sfida, un po’ per mettere a segno un piccolo furto. Qualcun altro sembrerebbe non approvare, ma accetta ugualmente la cosa, perché vuole restare nel gruppo. Sin dalla primissima scena Obey rivela un taglio naturale, ruvido, potente, nell’accostarsi così al clima elettrico che precedette l’esplosione dei cosiddetti “riots”, nella nervosa ed irrequieta Inghilterra del 2011.
Del resto il cinema britannico già da qualche decennio ci ha abituato a questo rapporto schietto con il reale, con rabbie proletarie e contrasti sociali messi sempre in scena senza intellettualismi di sorta, senza filtri invadenti, ma con un senso del cinema che pulsa ad ogni inquadratura. L’esordio al lungometraggio di finzione del rodato Jamie Jones, validi trascorsi da documentarista per lui, non rappresenta certo il miglior esito di simili narrazioni cinematografiche, ma ha comunque una robustezza tale da giustificare le reazioni positive riscontrate a Bergamo.
Dopo essersi distinto al Tribeca un anno fa, Obey ha infatti raccolto il Terzo Premio del Bergamo Film Meeting in una edizione del festival che, se si considera anche il trionfo di Agustin Toscano autore del film El motoarrebatador, con analoghi tumulti scoppiati in alcune città argentine sullo sfondo, ha finito per privilegiare l’urgenza di certe problematiche sociali ricondotta però a storie personali dal forte appeal emotivo.
Nel film di Jamie Jones, ambientato lungo le strade di Hackney nell’East End di Londra, l’atmosfera sia prima che durante la rivolta ha per fulcro una livida parabola giovanile: quella che vede protagonista Leon, diciannovenne problematico con madre alcolizzata a carico e troppe amicizie pericolose intorno, che tenterà in tutti i modi (anche attraverso lo sport: il pugilato) di tenersi lontano dai guai, per finirne poi fatalmente travolto.
Dietro quel linguaggio cinematografico così spesso aspro, immediato, incalzante, si cela comunque l’impalcatura del classico racconto di formazione. Fin troppo classico, per certi versi. I rapporti di Leon con il gruppo, con la madre, con le istituzioni, con le donne. Ecco, tra gli incontri più emblematici che vanno a caratterizzare il percorso del protagonista risalta proprio quello con la bionda e ammiccante Twiggy: sedicente “squatter” incrociata per caso da Leon nel corso di un tumultuoso party, che scopriremo vivere da “alternativa” in un fatiscente edificio occupato, pur possedendo la famiglia un gran bell’appartamento in uno dei quartieri più rispettabili della capitale inglese. L’attrazione reciproca non pare destinata a durare molto, però, visto che lo stile di vita apparentemente libero della ragazza, stante anche una notevole differenza di estrazione sociale, cederà repentinamente il posto all’opportunismo e alle piccole ipocrisie associabili a coloro che, almeno da noi, vengono giustamente definiti “radical chic di sinistra”.
Pur con qualche schematismo di troppo, la sceneggiatura e l’ottima direzione degli attori riescono quindi a rendere Obey valida ricognizione delle differenze di classe e dei fermenti giovanili, in quella periferia londinese sempre più rassegnata, di fronte alla crisi, ma pronta occasionalmente a reagire con qualche disperata, inconsulta, pirotecnica ribellione.