Non solo Il primo Re.
“Negli ultimi anni qualcosa si sta muovendo, grazie all’uscita di alcuni titoli come lo sfortunato e sottostimato Pericle il nero di Stefano Mordini, Veloce come il vento di Matteo Rovere e soprattutto Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti che sembra aver dato una scossa positiva al cinema italiano, entusiasmando il pubblico e gli addetti ai lavori. Un film italiano sui supereroi, uno dei primi tentavi significativi della nostra cinematografia rivolto ad un pubblico adulto dopo Il ragazzo invisibile, l’esperimento di Salvatores indirizzato principalmente agli spettatori più giovani. Lavorando con un budget non certo stellare e limitando al massimo gli effetti digitali Mainetti, al suo esordio nel lungometraggio, ma con alle spalle quattro corti interessanti e originali, ha realizzato un’opera coraggiosa e vitale, un film di genere coerente e maturo, che non ha paura di sporcarsi e di lavorare sugli archetipi del genere di riferimento contaminandoli con la commedia e il dramma sociale. Ben vengano in futuro titoli come Lo chiamavano Jeeg Robot per dare nuova linfa vitale al nostro cinema, spesso restio nell’intraprendere strade inedite, senz’altro impervie e piene d’insidie ma che al contempo possono riservare delle piacevolissime sorprese se affrontate con piglio, audacia e consapevolezza. Ripartiamo da qui, non vivacchiamo sulle solite commediole che negli ultimi anni hanno riservato ben poche note liete. Dobbiamo tornare a esportare i nostri prodotti (come siamo riusciti a fare di recente con le serie tv Gomorra e The Young Pope) e a riportare al cinema quella fetta di pubblico di casa nostra che si è defilata anche a causa della mancanza di certi generi in cui eravamo maestri e che bene o male continuano a incassare discretamente, come testimoniano le decine e decine di film thriller e horror che ogni anno giungono sul nostro mercato dai paesi esteri e che in molti casi non sono certo superiori a titoli italiani come Shadow, At the End of the Day, Paura 3D e Oltre il guado. Per farlo però è necessario che gli addetti ai lavori ci credano veramente e che dimostrino un briciolo di coraggio nel sostenere con mezzi adeguati i talenti nostrani che ad oggi si ritrovano a fare i salti mortali per girare film in cui nessuno investe e che difficilmente otterranno una distribuzione e una visibilità adeguata”.
Scrivevo così, circa due anni fa, nella parte finale del mio intervento pubblicato sullo speciale cartaceo di Taxi Drivers dedicato al cinema italiano. Nel vedere Il Primo Re, il nuovo film di Matteo Rovere, mi sono ricordato di quanto avevo affermato a suo tempo. Sono anni che da più parti – addetti ai lavori, critica e una fetta consistente del pubblico più esigente di casa nostra – si invoca un rinnovamento del cinema italiano o un ritorno, riveduto, corretto e aggiornato, a un glorioso passato in cui eravamo capaci di realizzare gialli, (spaghetti) western, thriller, horror, polizi(ott)eschi e noir di grande successo sia in patria che all’estero. Il nuovo film di Rovere, dal budget piuttosto importante per una produzione italiana (circa otto milioni di euro), tenta con coraggio e un po’ d’incoscienza di esplorare nuovi territori, completamente estranei al cinema italiano contemporaneo, soprattutto quello mainstream che continua a fossilizzarsi sulle solite commedie coi soliti attori. Purtroppo, l’operazione portata avanti da Rovere e dai suoi collaboratori risulta assai fragile e pretenziosa, finendo per franare e rimanere schiacciata sotto il peso abnorme e smisurato delle proprie ambizioni. Invece di una trasposizione epica sulla leggenda di Romolo e Remo e la fondazione di Roma ad opera del primo, ne viene fuori un film goffo che sbaglia completamente i toni e il registro da utilizzare, capace suo malgrado di scivolare in più d’una occasione nel ridicolo involontario. La scelta del cast, ad eccezione di Tania Garribba, davvero brava e sorprendente nel ruolo della vestale, risulta abbastanza infelice: Alessandro Borghi (interprete bravo e capace quando recita in sottrazione, decisamente meno quando eccede nei toni) nei panni di Remo è in costante e perenne overacting; Alessio Lapice in quelli di Romolo rimane sullo sfondo, dimesso, catatonico e sofferente per quasi tutta la durata del film. Le musiche di Andrea Farri, martellanti e fastidiosamente onnipresenti, sono talmente enfatiche da risultare stucchevoli. Si salvano le ambientazioni, curate e suggestive, e la fotografia di Daniele Ciprì che sceglie di utilizzare la luce naturale per imprimere maggiore forza e autenticità ai vari scenari.
Purtroppo Il Primo Re non riesce a coinvolgere e a emozionare, guarda e si rifà per l’uso della lingua – il proto latino sottotitolato in italiano – a La Passione di Cristo e Apocalypto, le opere più crude e estreme dirette da Mel Gibson, girate rispettivamente in latino, ebraico, aramaico e in lingua maya, ma non ne possiede lo stesso impeto visivo e la medesima radicalità (e a onor del vero neanche lo stesso budget). Finisce purtroppo per essere un “vorrei ma non posso” a cui auguriamo comunque un buon esito commerciale, considerando che potrebbe avere una discreta visibilità nei mercati internazionali, in grado di non scoraggiare i prossimi temerari che avranno l’ardire di proporre qualcosa di nuovo e di diverso al pubblico italiano.