Jersey Boys, un film del 2014 diretto da Clint Eastwood, basato sull’omonimo musical del 2006 di Marshall Brickman e Rick Elice e su una sceneggiatura di John Logan, che narra la storia del gruppo musicale The Four Seasons. Inizialmente affidato a Jon Favreau, il film segue la nascita di alcuni ragazzi, la loro unione in un gruppo, la loro esplosione e le inevitabili problematiche, per un musical approdato a Broadway nel 2005 e trionfatore ai Tony Awards nel 2006. Le riprese si sono svolte tra settembre e dicembre 2013, e i protagonisti della pellicola sono John Lloyd Young, Erich Bergen, Vincent Piazza e Michael Lomenda, rispettivamente nei panni di Frankie Valli, Bob Gaudio, Tommy DeVito e Nick Massi.
Sinossi
Quattro giovani sognatori del New Jersey si uniscono dando vita al gruppo rock icona degli anni ’60, The Four Seasons. Inizia la loro inarrestabile ascesa verso la notorietà. Consacrandosi come una delle band di maggior successo nella storia del pop e del rock, con canzoni che hanno influenzato una generazione, tra cui “Sherry”, “Big Girls Don’t Cry”, “Walk Like a Man”, “Dawn”, “Rag Doll”, “Bye Bye Baby” e “Who Loves You”.
Tra i tanti approcci che si possono avere di fronte a Jersey Boys, si può provare a focalizzare l’attenzione su due di questi. Il primo è un approccio cinefilo, vagamente teorico, squisitamente intellettualistico, non privo di gusto. E cioè contestualizzare un film apparentemente inconsueto per i canoni di Clint Eastwood nel suo percorso cinematografico, partendo da una questione, diciamo così, formale: Jersey Boys è l’apogeo del cinema classico, dell’unico cinema classico contemporaneo, forse – arrischiamo – dell’unico cinema contemporaneo possibile in quel mondo lì, con quella storia, con quell’esperienza artistica e tecnica.
Il cinema americano fortissimamente classico nell’accezione che a essa ha attribuito Italo Calvino nel campo della letteratura: Jersey Boys è un classico perché non è propriamente un film nuovo, ma un film la cui prima lettura si rivela in realtà una rilettura. Un film che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. Che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno. Lodi infinite a Calvino, che ci fornisce la chiave di lettura, forse più semplice, ma anche più chiara. Il vero miracolo della direzione di Clint sta proprio nel saper trovare il raro equilibrio tra autorialità e intrattenimento, memoria collettiva e storia minima, singolo e massa, forma e contenuto.
C’è un secondo approccio da tenere in considerazione: quello empatico. Jersey Boys è un film genuinamente empatico che riesce nell’impresa né di ammiccare né di arruffianarsi il pubblico, prediligendo la strada del cinema popolare (branchia cui appartiene perlomeno in patria – ma è un film naturalmente americanissimo): coinvolgere. Come? Con la spartizione del punto di vista (Tommy, Nick e Bob si alternano alla narrazione, conferendo ad ogni sezione il loro punto di vista – leaderismo incontrollato, repressione emotiva, talento ambizioso – con il caso isolato di Frankie che, essendo il protagonista, c’è pressoché sempre), l’evocazione di un mondo perduto e votato di per sé alla nostalgia (l’utilizzo massiccio di décor e canzoni d’epoca) e le dispute tra i componenti della band (rappresentazione metaforica dell’impossibilità di un accordo). Il cinema popolare classico. Apoteosi della malinconia dei bei tempi andati, celebrazione nostalgica da parte del conservatore Eastwood che non può non guardare indietro per andare avanti.
Al netto di qualche scompenso narrativo in una sceneggiatura che funziona ottimamente, ma risente di qualche ellissi di troppo. È un film meraviglioso per la sua costante capacità di stupire anche coloro che già conoscono la storia. Splendida fotografia decolorata di Tom Stern. Il quartetto dei protagonisti è eccellente e sa coniugare divertimento e commozione (il finale è solo lacrime), ma lodi infinite al divino Christopher Walken.