Una gloriosa delegazione a Pyongyang di Pepi Romagnoli è un’altra pellicola diretta da una donna nel concorso italiano del 4° Festival Internazionale del Documentario Visioni dal Mondo, dove la presenza femminile è forte non per il politically correct, per seguire le quote rosa, ma perché i film sono oggettivamente belli, come ha affermato il direttore del Festival.
Su quest’ultimo, però, avremmo qualcosa da ridire sulla riuscita di un’opera che sembra uscita da un ministero della propaganda anni ’50. Il documentario, in questo caso, vorrebbe rappresentare come “cinema del reale” il vero volto della Corea del Nord, denigrata dalla disinformazione dei mezzi di comunicazione occidentali, per vedere con i propri occhi se quello che si dice della dittatura di Kim Jong-un sia vero e falso. Lo scopo della regista, come ha affermato alla fine della proiezione, era quello di parlare di una Corea come paese di un unico popolo, e quindi perorare la causa di un’unificazione tra i due stati oggi esistenti, angolo del mondo sopravvissuto alla politica della Guerra Fredda.
L’occasione è data dallo storico incontro tra Kim Jong-un e il presidente della Corea del Sud Moon Jae-in avvenuto il 27 aprile di quest’anno, in cui i due leader hanno iniziato un riavvicinamento nei rapporti politici. Ecco che Una gloriosa delegazione a Pyongyang mette in scena il viaggio di quattro amici, capitanati da Davide Rossi, scrittore, giornalista, insegnante e membro del Partito Comunista Svizzero, in visita nel paese per mostrare quello che è il vero volto di una società comunista incamminata verso un futuro di progresso.
Il film, però, nella sua costruzione, tradisce fin dall’inizio quel richiamo a un cinema del reale che non può realizzarsi nel momento in cui il soggetto è un tema da dimostrare ben preciso e non un’osservazione acritica. Una gloriosa delegazione a Pyongyang è diviso in due parti: nella prima assistiamo alla presentazione dei quatto viaggiatori – il politico, un giovane giornalista di origine russa, un’artista italo-venezuelana e un appassionato di fotografia – e alla difficile organizzazione del viaggio; nella seconda, al viaggio vero e proprio a Pyongyang, dove si mostra l’ideale socialista su cui poggia la Repubblica Popolare Democratica di Corea, la ricerca continua della crescita culturale, la bellezza della città e degli edifici pubblici, l’efficienza di una fabbrica, con dialoghi tra i vari interpreti su quello che hanno visto, sulle loro impressioni, sulle loro emozioni che vanno dal positivo all’entusiastico.
La messa in scena e il taglio scelto dalla regista mostrano un paese perfetto, pacifico, non contaminato dal consumismo capitalistico, dove tutti sono sorridenti (e dove sorridono in continuazione anche gli interpreti). Lo spettatore, però, inizia a farsi qualche domanda. La capitale è composta da un’architettura imponente e piazze vaste dove la gente non c’è, oppure appaiono sparute figure, in una visione quasi metafisica che ricorda i quadri di De Chirico, in cui l’umanità non si vede se non raccontata per interposta persona dai protagonisti del viaggio (sempre seguiti da una guida). Il viaggio è strettamente “guidato e controllato” e i nostri eroi non possono deviare dalle zone dove sono accompagnati dai funzionari governativi: non si vedono gli operai, non si vedono le campagne, non si vede in effetti alcunché di significativo se non la rappresentazione di una perfetta cartolina. Se a volte si fanno delle domande alla guida sulla vita in Corea le risposte appaiono sempre recitate da un canovaccio preparato in anticipo.
Ciò che manca in Una gloriosa delegazione a Pyongyang è la spontaneità e la ripresa del reale, sostituita da una costruzione controllata della messa in scena (e si vede nei titoli di coda, mentre Pepi Romagnoli dà precise indicazioni, facendo ripetere i dialoghi): questo aspetto riduce notevolmente l’aspetto documentaristico e invece scopre lo stile di fiction della pellicola con un ben preciso progetto e messaggio da comunicare. Non c’è nulla di improvvisato in Una gloriosa delegazione a Pyongyang, ma tutto è preordinato, tutto calcolato. Già dalla prima sequenza, dove si presentano i protagonisti, si ha un sapore di film d’avventura. Ma il continuo presentare il libro di Davide Rossi, “L’attualità del pensiero di Karl Marx“, a piè sospinto a ogni interlocutore, gli interventi suoi e degli altri sodali, le interviste per sentire la “voce della gente” (ma sempre controllate ed eseguite dalla guida del posto con risposte tra l’imbarazzante e l’insignificante), l’intera sequenza nella metropolitana, che appare come un balletto di efficienza e di bellezza delle architetture, sono tutte sequenze che nella loro accumulazione visiva trasformano Una gloriosa delegazione a Pyongyang più in un’involontaria parodia che a una ripresa della realtà. E questo, forse, il risultato scorto dallo spettatore di questa pellicola, a cui invece la regista voleva imprimere un tono di scoperta di un paese di cui si conosce poco. Ma dopo aver visto Una gloriosa delegazione a Pyongyang, le domande rimangono insolute, si continua ad avere informazioni monche sulla Corea del Nord e rimane invece la sensazione di aver assistito a un’operazione strumentale.