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Trieste Film Festival 2018: Frost di Sharunas Bartas, un passo indietro del regista lituano

Dispiace dirlo, ma tra i film in concorso al 29° Trieste Film Festival l’unica vera delusione è arrivata da un autore che solitamente apprezziamo molto, il lituano Sharunas Bartas

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Duole dirlo, ma tra i film in concorso al 29° Trieste Film Festival l’unica vera delusione è arrivata da uno degli autori più amati: Sharunas Bartas. Proprio la grandezza del cineasta lituano ci impone di argomentare meglio le ragioni di tale disappunto. Si tratta solo in parte della distanza dalla ricerca estetica rivelatasi nel corso degli anni ’90, da quella poetica così scarna, folgorante, essenziale, che aveva brillato soprattutto in film come Lontano da Dio e dagli uomini (Few of Us, 1996) e Freedom (2000). In effetti le modifiche apportate a quello stesso impianto, sia dal punto di vista stilistico che da quello narratologico, sono visibili già da parecchi anni, ma nel recente passato avevano generato ibridazioni comunque interessanti e dotate di un certo pathos, come ad esempio Indigène d’Eurasie (2010), da noi scoperto sempre a Trieste. C’è però sempre più confusione, sotto il cielo dell’Europa. E con il recentissimo Frost l’impressione è che la poetica di Bartas, già “imbastarditasi” a sufficienza, si sia fatta carico di istanze esistenziali e socio-politiche non pienamente sotto controllo.

Il nuovo film del lituano, come a recuperare l’essenza dei suoi trascorsi cinematografici, si chiude con una inquadratura dall’alto, con una ripresa che si allontana progressivamente dal corpo del protagonista per mostrarcelo al centro di un particolare paesaggio, un paesaggio di guerra: quello dell’Ucraina attualmente attraversata da un violento conflitto interno. Analogamente noi stessi vogliamo proporvi un’inquadratura dall’alto del suo fare cinema. Nel senso che dai più nobili esordi fino ai meno ispirati lungometraggi recentemente diretti vi è comunque, a nostro avviso, una lodevole coerenza: il tentativo di rappresentare personaggi in fuga da una qualche “zona di sicurezza”, da una realtà inurbata, ed indirizzati così verso il confronto spesso aspro col versante più desolato, selvaggio e talvolta ostile di un determinato territorio o universo antropologico. In fondo questa tensione dialettica Civiltà/Natura si esprimeva in modo non dissimile anche nel conturbante, a tratti ispirato Indigène d’Eurasie, noir trans-nazionale non privo di meriti.

In Frost pare che le intenzioni del regista siano in qualche misura simili. Lo scenario è rappresentato stavolta dalla guerra scoppiata in Ucraina tra governo di Kiev e separatisti del Donbass. Gli “attanti” che abbandonando vite più comode vanno a infilarsi in quella cruda realtà sono invece una coppia di giovani baltici, determinati (lui per convinzione, lei per emulare l’amato) a portare aiuti umanitari nella regione, senza peraltro saperne un granché nel conflitto.

Qui subentra il primo problema, da cui gli strati profondi della scrittura cinematografica di Bartas risultano contagiati. Il segnale, ovvero, di una possibile incoerenza di fondo. Da un lato, negli sviluppi di questo atipico road movie concepito tra le lande gelate dell’ex Unione Sovietica, si percepisce la sostanziale inadeguatezza del protagonista, il suo volersi rendere utile senza però comprendere realmente né gli eventi che gli accadono intorno, né la gravità dei rischi. Una comprensibilissima forma di spaesamento, quindi. La quale dovrebbe presumibilmente riflettersi in una consimile rappresentazione del conflitto. E invece no! Al contrario, dai colloqui coi soldati regolari e con gli altri miliziani incontrati lungo il tragitto pare affermarsi una visione univoca della guerra, fondamentalmente anti-russa, quasi fosse l’eco delle posizioni filo-governative sostenute a Kiev.

Questo aurorale scompenso, già discutibile di suo, sembra portarsi dietro un corollario estetico che suona da inesorabile condanna: abituati un tempo a film in cui Bartas giocava magistralmente coi silenzi, siamo inondati qui da dialoghi fittissimi e didascalici la cui verbosità risulta a volte irritante. Quasi conseguentemente le scene in campo lungo, così care all’autore, cedono il passo spesso e volentieri ai primi e primissimi piani. Il che ci lascia almeno un interrogativo stimolante: forse che i volti delle persone stiano diventando i nuovi paesaggi da esplorare, nel cinema del film-maker baltico? Con la speranza che tale tendenza trovi conferma in progetti cinematografici di maggior respiro ma soprattutto più intimi, non così condizionati da fattori esterni o peggio ancora da stringenti considerazioni geopolitiche, prendiamo atto di questo tentativo e del suo parziale fallimento. My Sharunas, alla prossima.

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  • Anno: 2017
  • Durata: 130'
  • Distribuzione: Luxbox
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Lituania, Francia, Polonia, Ucraina
  • Regia: Sharunas Bartas
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