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Taxidrivers Magazine

“Winter’s Bone”: quando il freddo ti penetra nelle ossa

Illuminazioni dal cinema indipendente americano. Rubrica a cura di Simone Filippini

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GelidoInverno

Appena qualche settimana fa balzavo, a mo’ di satiro danzante, annunciando l’arrivo della verde stagione con la recensione di una pellicola intrisa d’amore e di nobili (seppur fragili) sentiment(alism)i; beh giusto per farvi un dispetto mi accingo a farvi ripiombare in una cappa di freddo e gelo senza eguali. Inutile questionare, la decisione è presa, dunque: infilatevi il cappotto, armatevi di guanti, berrettini, sciarpe e quant’altro, accendete il termosifone, mettete l’acqua a bollire preparandovi a gustare un caldo e ristoratore tè; solo alla fine di tutte queste (necessarie) operazioni potrete gettarvi a capofitto nella lettura.

C’era una volta, in una piccola casetta del Missouri, una giovanissima Jennifer Lawrence, sprovvista di statuetta dell’Accademy e ancora sconosciuta ai più… Ai cinefili DOC sarà bastato questo indizio-bonsai per individuare la pellicola; tutti gli altri sappiano di avermi deluso, più di Bastianich nel post-cena, consumata presso la trattoria “Da Gigi”. Con la speranza e l’augurio che sappiate socraticamente di non sapere, vi svelo il titolo: “Winter’s Bone” alias “Un gelido inverno”. Correva l’anno 2010, e la giovane Debra Granik provava a riprendersi dalla tiepida accoglienza del suo “Down to the Bone” (2004). Missione più che riuscita: la regista statunitense smussa e lima i non pochi difetti della prima pellicola, pervenendo ud un approccio estetico-semantico di prima classe, elegante e peculiare.

Doveroso però sottolineare la ruffianeria di fondo del prodotto: un disincantato e lucido dramma familiare degno di una delle pagine più struggenti di De Amicis. Sceneggiatura lacrimosa e teatrale, carica di un patetismo spesso fine a se stesso; si mira a commuovere il pubblico con una pregevole carrellata di clichè e luoghi comuni: famiglia in ristrettezze economiche, padre alcolizzato, madre disabile, figlia maggiore che deve badare ai fratellini, vicini scorbutici, droga, freddo. Sì Debra, hai decisamente calcato la mano! Eppure, a sorpresa di tutti, questa fiera dell’usitato e del già visto non stride, non infastidisce , anzi si muove, per quanto possibile, con discrezione.

Winters Bone

Il concept scarno e minimalista viene affiancato da un apparato tecnico di prim’ordine: fotografia suggestiva e perfettamente calzante con il background dell’intera vicenda; montaggio preciso quanto delicato, capace di far volare 100 minuti di filmico in un battere di ciglia, per non parlare di una location in totale simbiosi con gli altri elementi, pronta a fungere da collante scenico-tematico. Tanti bei giri di parole ma ancora non abbiamo definito target e mission del prodotto: la (mia) titubanza viene dettata da un’ambivalenza di fondo, propria del film, che non permette una definizione univoca. Principale dicotomia: genere. Drama o thriller questo è il dilemma! La pellicola cerca di miscelare le due componenti in modo omogeneo, ma il risultato è quello a macchia di leopardo. Anche qui la sbavatura strutturale non pesa sul risultato finale, fomentandone anzi la singolarità.

Bene, ho già tardato abbastanza il momento topico: madame end messieurs, parliamo ora della beniamina delle folle, la donna del momento, la regina-Mida della Hollywood che conta. Jennifer Lawrence. Eh sì, il fenomeno Lawrence sta contagiando l’America ed il mondo; sarà il suo sorriso, il suo brio, la sua solarità, sarà tutto questo ed altro ancora, fatto sta che la giovane attrice americana sta monopolizzando riviste e social network. Emma Watson, comincia a tremare!

Forse non tutti sanno che la bella Jennifer ha ricevuto la prima candidatura all’Oscar proprio per questa pellicola. E non ci si stupisce per nulla: l’attrice, allora ventenne, dimostra carisma ed profondità ineccepibili. Interpretazione sorprendentemente intensa per una pischella ancora in subbuglio ormonale; sì perché la Lawrence si innalza a vera “one-girl-show”, unica e vera protagonista-Atlante pronta a sopportare il peso dell’intera produzione sulle sue spalle.  E arrivano raffiche di nomination e premi da ogni dove: Golden Globe, Chicago Film Critics, Festival di Berlino… Beh, dopotutto qualcuno una mano prova a dargliela: ci pensa John Hawke, vestendo i panni di uno zio tossico, scorbutico e con evidenti scompensi psicologico-affettivi. Caratterizzazioni cupe e taglienti, anche se spesso troppo ingenue e bidimensionali.

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Sembra ormai chiaro l’intento principale della regista: dipingere un micro-cosmo di miseria e violenza, una lotta ancestrale di autopreservazione e sopravvivenza; ne emerge un amaro e nebbioso quadro verista, perfetta metafora di una visione (più che) pessimistica dell’esistenza. Prendi una famiglia sull’orlo del crollo, aggiungici un bel mercato di metanfetamine e trafficanti dallo sguardo torvo, ambienta il tutto in un Missouri montuoso pieno zeppo di zoticoni e tossici, desolante e(e desolato), ed ecco bello che pronto un film per il Sundance! Non per nulla, la pellicola si accaparra a due mani il gran premio della giuria. Il grande pubblico fatica ad apprezzarlo nella piattaforma mainstream, viste forme e contenuti decisamente elitarie e ricercate.

Certo urlare al capolavoro ancora non si può, e anzi rischieremmo di far la fine di Pierino che grida “al lupo” un giorno si e l’altro pure. No, ”Un gelido inverno” rimane masterpiece “in fieri”: c’è ancora del “labor limae” da fare (latinismi a profusione), ma la strada è quella giusta (eufemisticamente parlando).

Dunque, chi ancora non ha avuto modo di visionare la sopradetta e analizzata pellicola segua queste semplici direttive: leggetevi una poesia di Leopardi; spulciate qualche passo di Schopenhauer; ascoltate in loop il CD di Lana del Rey; comprato una confezione formato famiglia di Kleenex. Entrati così in “depression mode: on”, non vi resta che scaric…ehm noleggiare, sì noleggiare il DVD in questione ed abbandonarvi ad un solipsistico ed atavico pessimismo di fondo, possibilmente con catarsi finale. Ma, una volta vinti “spleen” e male di vivere, vi gusterete un dramma fervidamente intenso e di magistrale caratura.

Simone Filippini

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