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Donne nel cinema western: Cat Ballou

If they move. Kill ‘em”. Il western da riscoprire. Rubrica a cura di Eugenio David Ercolani

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Prima dell’interruzione, lunga quasi nove mesi, in cui Dust è rimasto dormiente, si era iniziato un discorso – nella forma di una sorta di dizionarietto – sulla figura della donna nel cinema western. Dato che questa rubrica, dal numero precedente, che funge da spartiacque, ha inaugurato una nuova fase della sua esistenza, non sembra il caso di riprendere in mano uno speciale iniziato quasi un anno fa. Al contempo sarebbe un peccato lasciare incompleto un discorso spesso ignorato o preso sottogamba. D’ora in poi quindi, nei mesi e numeri a venire, troverete di tanto in tanto film attinenti a questo specifico argomento e pezzi in cui cercheremo di analizzare la femminilità all’interno del cinema maschile per antonomasia, attraverso le attrici che hanno scelto di indossare il cinturone. Iniziamo, o ri-iniziamo con Jane Fonda

 

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Catherine Ballou (Fonda) è una giovane insegnante in viaggio verso Wolf City, Wyoming, per visitare il padre allevatore, Frankie Ballou (il grande caratterista John Marley). Durante il suo lungo viaggio in treno la dolce e virginale Catherine aiuterà inconsapevolmente il ladro di bestiame Clay Boone (Michael Callan) a fuggire dallo sceriffo che lo ha in custodia, mentre lo zio del prigioniero, Jed (Dwayne Hickman), travestito da predicatore, distrae l’uomo di legge. Raggiunto il ranch, scopre che la Wolf City Development Corporation sta spietatamente cercando di prendersi il ranch di famiglia, il cui unico difensore è un pacifico indiano, Jackson Two-Bears (Tom Nardini). Catherine rintraccia e convince Clay e Jed Boone ad aiutarla a difendere la sua terra e loro, con riluttanza, accettano. Non le ci vuole molto però per capire che i due fuorilegge non sono all’altezza e che in realtà altro non sono che due ladri di polli che non hanno mai sparato un colpo. Quindi con i pochi soldi rimasti assume, a distanza, anche il leggendario pistolero Kid Shelleen (Lee Marvin) per impugnare la pistola contro Tim Strawn (di nuovo Marvin), alias Silvernose, il sicario, assunto dalla compagnia di costruzioni, per spaventare Frankie e allontanarlo dalla sua proprietà. Quando però Shelleen si presenta, si rivela essere l’ombra di se stesso, una sorta di derelitto, un ubriacone che non è letteralmente in grado di colpire la fiancata di un fienile. Catherine, quindi, in compagnia di un pistolero leggendario sì, ma incapace di estrarre la pistola senza che i pantaloni gli cadano alle caviglie, un indiano pacifista e due codardi buontemponi, nulla può contro Silvernose che infatti finirà per uccidere senza pietà il padre. Lo sceriffo locale, come anche i cittadini del posto, intimoriti, si rifiutano di denunciare il fatto ed è qui che Catherine decide di far giustizia per mano propria trasformandosi in Cat. Lei, oramai abbandonate le sue aspirazioni d’insegnante, convince i quattro membri di questa assurda banda a rapinare un convoglio mentre Shelleen, ispirato dal suo amore per Cat (non corrisposto perché lei ama Clay), si rimette in sesto tornando al suo splendore originario. Il tutto raccontato da una sorta di coppia di menestrelli (Stubby Kaye e l’immenso jazzista Nat King Cole, morto a distanza di pochi mesi dall’uscita del film).

Questa, a grandi linee, la trama di Cat Ballou, commedia western del 1965, la cui punta di diamante, va detto subito, è proprio Lee Marvin, qui alle prese con il doppio ruolo di eroe, seppur sui generis, e di cattivo, di nero vestito e con un naso argento. L’opera prima del regista Elliot Silverstein fece capire agli studios il gigantesco potenziale da “leading man” dell’attore, che per quanto, già nella sua prolifica carriera, avesse collezionato interpretazioni memorabili (ricordiamo Giorno Maledetto (1955) di Sturges e Prima Linea (1956) di Aldrich) ancora non aveva mai avuto un ruolo da protagonista (con l’eccezione di Contratto per uccidere (1964) di Don Siegel). Cat Ballou, che fece faville al box-office, si può tranquillamente considerare uno spartiacque nella carriera dell’attore newyorkese. Quelli che seguiranno saranno anni in cui non sbaglierà un colpo: La nave dei folli (1965), I professionisti (1966) e Quella sporca dozzina (1967) nonché la sua collaborazione con John Boorman. Sicuramente la scelta di affidare un ruolo così sopra le righe, come quello di Shelleen, all’Hemingway del cinema americano, deriva proprio dal fatto che non avesse mai bazzicato neanche lontanamente ruoli brillanti, tanto meno comici. La reputazione di Marvin era quello di duro, spesso cattivo (come scordare la sua spietatezza ne Il grande caldo (1955) di Fritz Lang) o comunque di eroe ambiguo, dall’occhio furbo. Quindi questa peculiare ‘casting choice’ giocava appunto sull’elemento della sorpresa, ma sarebbe a dir poco limitativo motivare così la riuscita del personaggio. Marvin dà un’interpretazione favolosa, meritandosi la statuetta e dimostrando una verve, dei tempi comici, nonché una mimica facciale e fisica che tuttora lasciano basiti. Non c’è quindi da stupirsi che nonostante Cat Ballou sia, a tutti gli effetti, un film corale, nessuno sembri ricordarselo. Marvin torreggia sulla pellicola oscurando tutti i suoi interpreti. Va detto però che, con l’esclusione di Jane Fonda, gli altri tre attori che compongono la banda di outsiders non avevano una chance in partenza. Il ballerino e cantante Michael Callan, il televisivo Dwayne Hickman e il desaparecido Tom Nardini (il migliore dei tre) fanno la fine di Brad Dexter, il settimo dei magnifici sette: a distanza di tempo, poof, scompaiono dalla memoria. Per quanto riguarda la protagonista, va aperto un capitolo a parte.

Prima di diventare una figura politica, di stravolgere le regole dello star system, prima di diventare un’attivista contro la guerra in Vietnam, di essere immortalata durante il suo arresto con il pungo chiuso alzato, prima di diventare femminista, di far visita alla prigione di Alcatraz quando fu presa sotto assedio da nativi americani nel ‘69, di creare controversia quando spese parole in difesa del lavoro che veniva fatto dal reverendo Jim Jones, prima di aiutare la salita al congresso di Heuy Newton, di definire le Pantere Nere dei rivoluzionari avanguardisti degni di tutto il supporto e l’amore possibile, prima di andare in tournée con il suo allora amante Donald Sutherland con un’opera teatrale “d’assalto” intitolata Fuck the Army, prima di creare scandalo dicendo che essere comunisti è qualcosa per cui vale la pena pregare, prima de La sindrome cinese, prima di Tout va bien di Godard, prima del matrimonio con Roger Vadim e le indiscrezioni fuoriuscite sulla loro particolare vita sessuale, prima di tutto questo, Jane Fonda era una brava ragazza, una fidanzatina d’America con i boccoli biondi, la figlia di un signore del cinema.

Aveva dodici anni quando la madre morì suicida in un istituto psichiatrico e Henry si risposò con la donna che ad oggi Fonda considera la madre effettiva. Il trauma non la blocca e a diciassette anni debutta sul palcoscenico con suo padre in La ragazza di campagna, un piccolo spettacolo organizzato per beneficenza a Omaha. In precedenza aveva mostrato poco interesse nell’intraprendere una carriera d’attrice, ma quell’esperienza la convinse. Suo padre pagò per le sue lezioni di recitazione sotto l’occhio esperto di Lee Strasberg. Dopo diverse apparizioni teatrali fece il suo debutto a Broadway nel 1960 in C’era una bambina, con Gary Lockwood e Joey Heatherton. Debutta nel cinema lo stesso anno con In punta di piedi di Joshua Logan, al fianco di Anthony Perkins. Dopo il rifiuto di Ann-Margret viene offerto a lei il ruolo di protagonista in Cat Ballou, film che non fa che confermare il suo status di “star per famiglie”. Cat Ballou rimane il miglior esempio di commedia western in assoluto. Al contrario delle colleghe Betty Hutton in Anna prendi il fucile e Doris Day in Non sparare baciami (di cui abbiamo avuto modo di parlare tempo fa) appartenenti al decennio precedente, Fonda rimane terrena e soprattutto dotata di una sessualità che, seppur castamente, si insinua nel suo personaggio.

Indubbiamente, come molti rimarcano, il film è giunto fino a noi non nel migliore dei modi, con un retrogusto – diciamolo pure – datato. Le colpe non risiedono nell’ottima sceneggiatura di Frank Pierson, che di lì a breve firmerà anche lo script di quel tesoro mondiale che è Nick mano fredda, bensì nella regia. Elliot Silverstein, solido regista di sicurissimo mestiere, veniva da più di un decennio di televisione ed è forse qui che nasce il problema. Se registi come LumetRosenberg e Frankenheimer usciti dalla realtà del live television theatre hanno dimostrato verve registiche e dinamicità, Silverstein sembra ancora richiuso tra le quattro pareti di uno studio televisivo. Seppur commedia, Cat Ballou è un western e aveva bisogno di un respiro più ampio, di un ritmo più teso. Darà prova migliore nel ‘70 con il suo secondo e ultimo western: Un uomo chiamato cavallo. Dopodiché, lentamente e inspiegabilmente, scomparirà dirigendo sempre di meno e sempre più film televisivi.

 

Eugenio Ercolani

La prossima puntata: Soldato Blu.

 

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