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Contrasto

Tutti a casa

CONTRASTO, quarta puntata: “Tutti a casa”. Pasquale D’Aiello analizza le ragioni della protesta che, dalla fine di Ottobre, ha animato gli “stati generali del cinema italiano”. Le contraddizioni, il linguaggio utilizzato e gli interessi interni alle varie fazioni hanno dato adito ad un movimento scomposto e ambiguo che, purtroppo, è rimasto impastoiato nelle maglie della destra. Ciò non toglie che alcune delle rivendicazioni (la difesa dei posti di lavoro, la richiesta di maggiore chiarezza nelle logiche dell’erogazione dei finanziamenti e la necessità di canali distributivi che diano visibilità alle realtà indipendenti) siano da considerarsi sacrosante. Nonostante tutto vale la pena di lottare.

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La protesta del cinema italiano  al Festival di Roma

Qualche giorno prima dell’inizio dell’ultima edizione del Festival di Roma numerosi autori, registi e operatori del mondo del cinema e dell’audiovisivo si sono riuniti alla Casa del Cinema (Roma) per discutere dei tagli ai finanziamenti al sistema cinema e della politica di disinteresse e aggressione operata da questo governo, scegliendo lo slogan “Tutti a casa”. Il luogo della riunione non è stato scelto casualmente, ma in ragione della volontà della giunta Alemanno di privatizzare la gestione della Casa del Cinema.

E’ evidente che questo governo cerca di distruggere tutto quanto non riesce a comperare ed assoggettare. Il mondo della cultura e, dunque, anche del cinema, si è dimostrato essere una cittadella troppo poco malleabile ai desideri di conquista della destra liberista e cialtrona. Eppure non è che non abbia raccolto successi. Anzi sono numerosissimi. Occorrerebbe iniziare parlando dall’impoverimento culturale che la destra (tutta la vera destra, ovvero anche la sinistra nominale che attua politiche di destra) ha imposto alla società, come testimoniato dall’imperversare dei reality show e delle fiction, veri cavalli di Troia della manipolazione dello sguardo. Qualche tempo fa uno dei nostri politici ricordava che era il settore della fiction il vero posto di comando dell’ente radiotelevisivo statale. Le conquiste brutali di spazi non hanno pagato con altrettanta remunerazione: quanti hanno visto il tanto sbandierato Barbarossa di Martinelli? Il linguaggio becero, fiacco e debilitante della fiction moderna si è insinuato nel cinema, proponendo volti banali e faccette “basite” (si, cito dal buon Boris), una recitazione sottotitolata per i pensatori stanchi e trame invereconde.

Il cinema non è rimasto immune. La necessità di accaparrarsi i finanziamenti del ministero,  di vendere il prodotto ai network televisivi, di raggiungere anche le frange meno attente del pubblico, ha prodotto un cinema malato, fatto di storie fatue e bislacche. Tutta l’attenzione si è concentrata sugli effetti speciali, il patinamento dell’immagine, la ricerca di appeal, sia esso dovuto al sesso, alle battute facili o alla mera morbosità non importa. I personaggi si sono schiacciati in una dimensione privata ed individuale, perdendo completamente di vista la collocazione sociale. Questo è grande parte dello stato del cinema. Ovvio, non di tutto il cinema. C’è anche un cinema di resistenza, di qualità, di ricerca, di rispetto per l’autore e per il pubblico. Ma è minoranza. Molti dei giovani cineasti inseguono esclusivamente la storia brillante o di buoni sentimenti, oppure di puro genere, gli unici prodotti che il mercato premia e paga. Chi segue strade più impegnative deve mettere in conto il doppio della fatica per lavorare.  Oggi questo mondo chiede di essere finanziato, attraverso il FUS o il sistema del tax credit o tax shelter. E’ una rivendicazione unitaria che tutto il cinema rivolge allo stato.

La novità di questa richiesta consiste nel fatto che il cinema non si pone più come soggetto politico o culturale, ma come entità industriale, che intende aprire un tavolo di trattativa sindacale col governo, non in difesa di un idea, un concetto, un valore, ma a tutela dei posti di lavoro. La difesa dell’occupazione è un’azione sacrosanta che va sostenuta in maniera aprioristica, tuttavia non deve sfuggire che la discesa dal piano culturale verso quello sindacale segna la fine di un’era. E sono i protagonisti stessi a prendere atto dell’impossibilità di rappresentarsi come soggetto eminentemente culturale. Se giocata sul piano delle idealità la lotta sarebbe stata molto più forte e trainante.

Oggi i lavoratori del cinema devono difendere i propri posti di lavoro, ma devono farlo sostanzialmente da soli, in quanto il richiamo alla società risulterebbe molto meno convincente di un tempo. Quando durante le discussioni alla Casa del Cinema si è parlato delle forme di lotta è stato chiaramente espresso il timore che una forma di protesta troppo dura potesse danneggiare i propri film ospiti al Festival di Roma. E’ molto lontano il 68’, quando il cinema italiano dei PasoliniZavattini, Solinas, Cavani, Faenza, Maselli contestava aspramente il festival di Venezia, dove pure erano presenti le proprie opere; è il caso tormentato di Teorema di Pasolini (come testimoniato nel documentario di Sarno “Venezia 68”). Per quegli autori, le loro ragioni, i loro film  tutto il paese civile poteva scendere in piazza, per la fiction proprio no. E la vittoria della destra è tutta qui.

Pasquale D’Aiello

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