La rassegna che segue è dedicata a racconti di formazione molto diversi tra loro ma che toccano tutti corde potenti. Durante l’adolescenza il tempo sembra passare in fretta, oppure può sembrare eterno. Questo dipende anche da che punto la si guarda e da come la si affronta. Ciò che è sicuro è che spesso a chiunque, in quegli anni acerbi, è capitato di passare una stagione o un momento che sembra segnare per sempre. Nei lungometraggi scelti nell’articolo il punto focale sono la salute mentale e come le preoccupazioni esterne possano influire sul singolo. Nella fattispecie, come l’equilibrio possa vacillare di fronte ai problemi personali e ai disagi provocati dalla realtà sociale e civile in cui questi personaggi vivono.
Un evento che coinvolge il benessere psicofisico può cambiare la vita, come nel caso di Quell’estate con Iréne o di How to Have Sex. Alcune tragedie famigliari sconquassano emotivamente, come si vede in Winter Boy – Le Lyceén. Una ragazzina troppo apatica per la sua età incappa nelle paranoie americane nel suo ultimo anno liceale, è il caso di The Sweet East. Le difficoltà e le ansie della vita adulta possono incombere sui leggiadri anni giovanili, come succede in Liberi. Questa guida è una piccola ma preziosa selezione di film incentrati su un momento che ha segnato per sempre l’avvenire dei ragazzi protagonisti. Con queste storie certi argomenti, solitamente narrati su soggetti adulti, vengono smossi lasciando a chi guarda la necessità di un dibattito su concetti importanti.
Liberi (2003)
Liberi di Gianluca Maria Tavarelli si affida alla recitazione effervescente e spontanea di Elio Germano agli inizi della carriera. Qui troviamo l’attore romano in uno dei primi ruoli da protagonista, capace di dar vita a un personaggio ricco di sfaccettature. Il confinamento in una piccola città, la povertà e i problemi dei genitori assalgono il ventenne Vince in questo dramma di formazione. I temi universali rendono Liberi un film coinvolgente che, a suo modo, tocca questioni delicate. In un’epoca (i primi anni Duemila) in cui tematiche come l’ansia paralizzante e le sue conseguenze non sono sdoganate, questo lungometraggio le centralizza. Il risultato è una rappresentazione sincera di come gli attacchi di panico possano delimitare la vita di chi si affaccia alla durezza adulta. Lo sfondo è quello di un’estate giovanile che conferisce, nonostante le difficoltà più o meno grandi dei protagonisti, il tipico languore delle giornate della bella stagione.
Liberi si inserisce dentro a un filone della nostra cinematografia che ha avuto un exploit sorprendente a inizio secolo, quello dei coming of age. Tale genere anche in Italia ha saputo ben caratterizzare le problematiche giovanili. Si pensi al gruppo che fa il classico viaggio post maturità in Che ne sarà di noi (2004). Oppure alla ragazzina smaliziata di provincia che si trasferisce nella metropoli in Caterina va in città (2003). Tra questi titoli vale la pena ricordare la vacanza in Grecia della protagonista di Dillo con parole mie (2003), dove la sua maturazione passa attraverso disillusioni. Anche In Liberi l’estate è la stagione madre della trama.
Nel lavoro di Tavarelli, Vince (Elio Germano) vive a Bussi, tra le montagne d’Abruzzo, in una realtà monotona e piatta. Al padre Cenzo (Luigi Maria Burruano), dopo il licenziamento, viene offerto un lavoro momentaneo nel parco d’Abruzzo. Qui uno dei colleghi dell’uomo si suicida, mandandolo ulteriormente in crisi. Intanto la moglie, Paola (Anita Zagaria), lo lascia per un politico locale con cui fugge a Pescara. Da questo momento la musica cambia di tono. Nella mite località balneare arriva anche Vince, che trova lavoro come aiuto cuoco in un ristorante. Durante l’esperienza lavorativa conosce e si innamora della figlia della proprietaria, Genny (Nicole Grimaudo).
La ragazza ha attacchi di panico ogni qualvolta debba prendere treni o autobus, o se si trova sola in mezzo a troppa gente. Così, viene delicatamente illustrato come può svilupparsi un disturbo legato all’ansia. Ciò che colpisce sono le modalità in cui Vince aiuta Genny. Il suo intervento diviene una sorta di decalogo realistico di come un contributo esterno possa aiutare a valicare muri mentali neutralizzanti. Tra le paure e alcune scintille romantiche arriverà proprio Cenzo a casa del figlio, nel tentativo di recuperare il rapporto con la moglie. Le scelte che il giovane deve fare formano il conflitto centrale del dramma. Queste vanno in parallelo al contrasto tra la desolata Bussi e la soleggiata Pescara, un luogo-metafora di villeggiatura della classe media italiana del centro sud.
La sopravvivenza di una generazione
La nitidezza e il montaggio ritmato sottolineano una giustapposizione delle due realtà ambientali. Difatti, l’immagine diventa luminosa e veloce quando si sposta nella città abruzzese, mentre nelle scene a Bussi gli elementi tecnici sono più stanchi e volutamente spenti. Le performance sobrie, con interpretazioni sfumate e una narrazione coerente e sempre ben gestita, danno vita a personaggi intensi, tutti brillantemente scritti. In particolare, spiccano i momenti di dialogo tra padre e figlio.
Da una parte il lungometraggio racconta di ventenni che devono affrontare le loro paure e fare i conti con le fragilità dei loro anni. Dall’altra, questa generazione deve sobbarcarsi il peso dei conflitti parentali. I protagonisti maturano durante l’estate, ma anche i loro stessi genitori lo fanno ed è proprio in questo che tutti riescono a essere liberi. Una scena memorabile vede Elio Germano che canta I Will Survive, il cui il testo tenace diventa l’emblema dell’intera storia. In fondo Liberi è, sì, un film di formazione, ma è anche un profondo spaccato di realtà sociale e disagio giovanile. È disponibile per la visione su CHILI.

Elio Germano in ‘Liberi’ (2003)
The Sweet East (2023)
The Sweet East di Sean Price Williams è una picaresca avventura su cui si innesta una vicenda di formazione vivida e surreale. Si tratta di un coming of age non convenzionale, che attinge dalla commedia satirica al road movie, fino al racconto metaforico sociale. Ironicamente intitolato The Sweet East, la mente dietro questo affascinante lungometraggio sembra riflettere sull’America con un sapore aspro in bocca. Procedendo con la visione si capisce presto che c’è poco di sentimentale o dolce nel ritratto che offre del suo Paese.
Il racconto è completamente nelle mani della blasè Lilian (Talia Ryder), che all’ultimo anno di liceo compie un viaggio attraverso gli USA, dalla Carolina del Sud fino all’est. The Sweet East inizia con una gita di classe verso Washington, poco dopo il gruppo finisce coinvolto in una sparatoria all’interno di una pizzeria. Qui il personaggio principale perde il telefono e scappa dal locale con l’anarchico punk Caleb (Earl Cave). Da questo momento la protagonista si avventura in solitaria in giro per il suo Paese. Il viaggio non è altro che uno spunto per raccontare sia le tasche più nascoste dell’America sia la disillusione delle nuovi generazioni verso il mondo attuale.
Ogni personaggio che Lilian incrocia (Jacob Elordi, Ayo Edebiri, Simon Rex, Earl Cave, Jeremy O. Harris, Rish Shaw) nasconde un significato. C’è il neonazista studioso, la regista loquace, un amante dell’EDM, un anarchico, un attore affascinante. Ognuno di loro appartiene a qualcosa e a un periodo dell’anno solare necessari a Lilian per cambiare e conoscersi davvero. Le persone che incontra sono archetipi, sogni, incubi che simboleggiano da un lato un paese ormai decadente, dall’altro lato la necessità propria dell’adolescenza di sperimentare l’inesplorato sia per il gusto di farlo che per trovare una propria identità. È l’urgenza di provare nuove esperienze che rendano unici quegli anni in cui tutto sembra possibile, prima di affacciarsi alla dura realtà del periodo maturo.
Gen Z e il peso delle involuzioni
Il lungometraggio segna il debutto alla regia del direttore della fotografia Sean Price Williams. L’autore ha creato un’estetica unica fatta di immagini sfocate e sgranate, veloci e claustrofobiche, con una colonna sonora stravagante. Ogni membro del cast di supporto nei rispettivi segmenti sullo schermo consegna qualcosa di importante alla narrazione. Nel mondo contemporaneo di cui fanno parte usano solo occasionalmente telefoni cellulari, quindi incarnano istanti, idee e movimenti diversi che aiutano alla storia a sembrare senza tempo. Tutti questi elementi sommati danno come risultato un lungometraggio la cui visione non comporta solo un semplice divertimento o una schietta rilassatezza. Piuttosto la voluta mancanza di convenzioni tiene sulle spine e costringe chi guarda ad attendere l’inaspettato.
Il critico cinematografico Nick Pinkerton, che ha curato la sceneggiatura, punta su dialoghi ricchi di parole dove ogni personaggio ha qualcosa da dire sull’America. Ciò che colpisce, con così tante osservazioni e focus sui problemi, è la mancanza di vere affermazioni, di discorsi che vanno nel profondo. Tutto è lasciato in mano a un ipotetico “accadrà”. Queste scelte vaghe, in realtà, sono fatte per uno scopo ben preciso. Infatti l’approccio nichilista si sposa bene con il caos che governa in generale il film ma anche con la testa in subbuglio di Lilian. La protagonista è insolita, disinvolta e perennemente enigmatica. A ogni situazione pericolosa che le si presenta alza le spalle, apprestandosi velocemente a voltare pagina con disattenzione e spigliatezza. Ascolta i personaggi eccentrici intorno a lei vomitare fatti spiritosi e come una spugna li assorbe, mentre racconta quasi nulla di sé.
La ragazza non è altro che una metafora della Generazione Z. Parte di questa gioventù è frustrata e ha ereditato un mondo in decadenza. Un universo fatto di sparatorie, cambiamento climatico, debiti impossibili, isterie di massa, dittature e controlli che aleggiano continuamente nell’aria. I ragazzi, anche volessero partecipare a cambiamenti, percepiscono i problemi come troppo sovrastanti, quindi smettono di cercare risposte o interrogarsi sui perché di certe involuzioni. The Sweet East sarà apprezzato negli anni a venire, grazie alla sua arguzia e all’umorismo particolare. In particolare perché riflette, seppur in modo surreale, un’ansia generazionale verso il presente e il futuro. Il lungometraggio è nel cartellone del catalogo MUBI.

‘The Sweet East’ (2023) con Jacob Elordi
Winter Boy – Le Lycéen (2022)
Winter Boy – Le Lycéen, con un’impronta semi-autobiografica, unisce classici tropi di formazione alla perdita affettiva, al senso di colpa e alla sessualità. Christophe Honoré mette in scena una narrazione di un personaggio che seppur giovane è consumato da una perdita. In parallelo, germoglia attraverso l’esplorazione della sua identità. Il regista affida a Paul Kirchner le redini di questa vicenda silenziosamente toccante sul non dare per scontato coloro che amiamo. Le Lycéen celebra anche il potere intrinseco nel ridefinire noi stessi dopo che una tragedia può frantumare la nostra fragilità.
Lucas (Kirchner) è un diciassettenne spensierato che si gode l’ultimo anno di liceo nell’attesa di raggiungere a Parigi il fratello Quentin (Vincent Lacoste). Ha una relazione passionale con Oscar (Adrien Casse), ma un giorno la morte improvvisa del padre (Christophe Honoré) sconvolge tutti i piani. Mentre la madre (Juliette Binoche) si rifugia nell’affetto della numerosa famiglia, Lucas si chiude in se stesso. Su consiglio di Quentin decide di lasciare la scuola momentaneamente per rintanarsi da lui nella capitale francese. Qui si infatua del coinquilino del parente, Lilio (Erwan Kepoa Fale), che si prostituisce di nascosto. Da lui cerca di farsi notare in ogni modo, anche andando oltre certi limiti. Di conseguenza, diviene necessario un cambio di rotta. La madre lo rimanda a casa e decisioni drastiche segneranno il suo destino.
La lussuria e il lutto di un giovane tormentato
La vicenda è raccontata a posteriori dal personaggio chiave che elabora faticosamente gli eventi che lo hanno portano sull’orlo del baratro. Honorè utilizza una tragedia per mostrare il drastico passaggio che piomba nella vita di un adolescente quando eventi reali incombono sulla gioventù. Il regista si serve della sfera sessuale per annotare i cambiamenti di Lucas. Difatti, gli concede una caratterizzazione carnale molto esplicita. Modella il personaggio di Kirchner e la sua sessualità per raffigurare come il fanciullo modifichi ogni atteggiamento mentre cresce. La storia d’amore adolescenziale tra il protagonista e Oscar è una relazione di passaggio, come possono essere quel tipo di rapporti in età puberale. A onore del vero la loro connessione si fonda anche su una comprensione reciproca già matura. Non a caso, grazie a questo dolce legame, la regia riesce a esplicitare la differenza tra lussuria e intimità.
Il fanciullo nasconde il dolore con varie maschere. In primis, dietro a un sorriso e un garbo perennemente presenti. Poi, giocando con la sua sessualità queer, sia in modo produttivo sia distruttivo. Segno della sua immaturità adolescenziale. La precocità e la malizia del protagonista sono inscenate in modo tale da rendere difficile la comprensione di come sta gestendo il lutto. Quindi, se effettivamente si serve del comportamento scafato per celare la sofferenza oppure per altri motivi. In realtà, trattandosi di un racconto di formazione incentrato sulla sessualità, questa viene usata non solo fine a se stessa ma per significati più profondi.
Il protagonista in lotta con se stesso
Winter Boy è prima di tutto un ritratto empatico. Il giovane, attraverso cadute ed epifanie, capisce che la rabbia per la morte prematura del papà non deve essere riversata compulsivamente in un piacere temporaneo. Non è benefica neanche la ricerca spasmodica di un significato per ciò che è accaduto. Il deragliamento della sua identità personale e fisica nei mesi parigini è necessario affinché comprenda tutte queste cose. Le persone nella vita del ragazzino simboleggiano il controbilanciamento adulto sul come affrontare un evento drammatico. Infatti, i famigliari sono più onesti nel fronteggiare il lutto rispetto a Lucas. L’alter ego di Lacoste è scontroso ma anche affettuoso perché intrinsecamente preoccupato per il fratellino. Invece Binoche, nei panni della mamma, cerca di somatizzare il lutto per rimettere in carreggiata il figlio infragilito.
Il regista sfrutta la vasta gamma di sentimenti che l’inverno di Parigi suscita in chi guarda per mostrare le suscettibilità del personaggio chiave. Come molti altri drammi di Honorè, per esempio Dans Paris (2006), il protagonista lotta per superare il torpore psicologico imposto dalla tragedia. Se in Sorry Angel (2018) c’è una malattia fisica a smuovere, qui il male interiore serve a colorare le esperienze del giovane. Funge da filtro attraverso il quale Lucas vede il mondo; il dolore non è più un ostacolo paralizzante. Quest’ultimo piuttosto diviene un vero e proprio stato emotivo che trasforma il significato delle sue esperienze quotidiane. Winter Boy – Le Lyceen si trova su MUBI.

‘Le Lycéen’ (2022)
How to Have Sex (2022)
Non c’è mai stato davvero un film di formazione strutturato uscito dal cinema britannico. Infatti, si tratta di un genere che in UK è molto più in voga nelle serie televisive. Nel mondo cinematografico anglofono è mancata una storicità narrativa su un personaggio centrale che cattura l’essenza dell’adolescenza dal punto di vista femminile. A rimediare a questa lacuna ci ha pensato Molly Manning Walker con How to Have Sex. Per festeggiare la fine del liceo, Tara (Mia McKenna Bruce), Skye (Lara Peeke) ed Em (Enva Lewis) decidono di andare in vacanza a Creta. La settimana al mare in un’isola greca è ormai un rito di passaggio per molti inglesi adolescenti. Le tre arrivano a Malia con alte aspettative per vivere la vacanza estiva più bella di sempre, fatta di spiagge, party e brevi intrallazzi amorosi.
Dal momento in cui vediamo arrivare queste ragazze, sappiamo che sono lì per divertirsi, ma si percepisce che aleggiano pensieri su Tara, la protagonista della storia. Nonostante la giovane sia apparentemente vivace, chiassosa, capace di conquistare chiunque, ha il tarlo della verginità. Un fatto che le sue amiche le rimarcano costantemente. La ragazzina prova a far sì che questo pensiero non incomba su di lei, ma la pressione la spinge a prendere una decisione di cui potrebbe pentirsi. Quindi si scatena a una festa notturna, fomentata dall’alcol. Infine si ubriaca con estranei fino a un incontro sessuale che la costringerà a indagare sulle proprie percezioni di consenso.
Un racconto genuino
Il debutto al lungometraggio della regista riporta a temi a lei cari già trattati nel corto, Good Thanks, You? (2020). Nel caso di How to Have Sex, copre vari argomenti, come le pressioni dei coetanei durante l’adolescenza, le amicizie tossiche e, soprattutto, il consenso. Tuttavia non tutto ruota attorno a questi temi. È vero che molto della narrazione riguarda l’assenso della protagonista, di chi la circonda, la sostiene o di chi tace e fa finta di non vedere. Ma è il viaggio di maturazione di Tara il vero cuore della trama, quello che tutti abbiamo attraversato in una forma o nell’altra. Non è un caso che il personaggio principale venga mostrato come forte e vulnerabile, due facce di un periodo fragile come effettivamente è l’adolescenza.
L’aggettivo più giusto per descrivere il film di Manning Walker è autentico. I dialoghi, le scene dei party, l’intollerabile dissolutezza rumorosa dei diciottenni che si agitano ballando musica house. Sempre in giro per una cittadina sporca di giorno e illuminata al neon di notte. La regia cattura ogni scena in modo documentaristico, così che gli spettatori possano relazionarsi con ciò che vedono. Per esempio, ricordando gli anni adolescenziali in una delle ubriacature storte o in una serata estiva festosa. Quanto viene mostrato è volutamente conflittuale. Per ogni momento giocoso c’è in agguato qualcosa di sinistro. La telecamera dalle sbornie passa a esplorare coinvolgimenti sessuali dei ragazzi, volontari o no, che siano testimoni o protagonisti di atti sessuali. L’ apertura verso la sessualità serve per avviare la strada alle materie portanti di questo film.
Il rito di passaggio, il ritorno da una vacanza
Attraverso i suoi soggetti, lo schermo costringe il pubblico a esplorare la propria moralità attorno a questioni di implicazione mentale e sociale. How to Have Sex è un racconto dicotomico e per questo genuino. Guardare un’aggressione fisica sullo schermo richiede di capire la gravità e l’importanza del consenso. Così come aiuta a prendere davvero coscienza della natura predatoria di alcuni uomini. Argomenti ostici che servono a riflettere. Necessaria anche la decisione di affrontare le tematiche trattate dal punto di vista di Tara. Assieme a chi guarda, la diciottenne sta vivendo il caos, il conflitto e la pressione; la sua innocenza racchiude tutto l’impatto emotivo del lungometraggio. Le spinte da fuori, il coetaneo che si approfitta di lei e la sua confusione sul fatto che quanto le è successo sia o meno consensuale.
Grazie al racconto, diretto e senza filtri esterni, si riesce a esplorare visceralmente temi mai così approfonditi prima di questo film. Il lavoro ha una prima parte animata da eccitazione e colori accesi, una seconda grigia dove al posto del mare blu ci sono marciapiedi sporchi. Tale scelta non è casuale, bensì riflette lo stato dell’alter ego di Mia McKenna Bruce. La giovane deve fare i conti con la realtà di ciò che è successo, prendendo coscienza di quanta colpa hanno avuto le aspettative sociali. Quando si trova in aeroporto per rimpatriare, il suo viso e il suo corpo non trasmettono quel classico sentimento di tristezza di ritorno da una vacanza. Invece, si comprende che qualcosa è cambiato in lei, internamente ed esternamente, rispetto a una settimana prima.
Il lungometraggio è un racconto essenziale sulle amicizie che chiaramente dureranno poco, su un viaggio estivo, sui riti di passaggio. È anche uno straordinario esame del comportamento degli adolescenti. Soprattutto, è un viaggio di 91 minuti dove l’estasi della vacanza e la devastazione successiva a una brutta esperienza costringono chi guarda a riflettere a fondo. Anche How to Have Sex è disponibile su MUBI.

‘How to have sex’ (2023)
Quell’Estate Con Irène (2024)
Dopo Sole (2019), il romano Carlo Sironi si avventura in un coming of age di due adolescenti che trovano una tregua inaspettata dalla loro difficile situazione. Ambientato nell’estate del 1997, Quell’estate con Irène segue le vicende di Clara (Maria Camilla Brandenburg) e Irène (Noée Abita). Le due sono momentaneamente affidate a un centro per persone con disagi mentali, dal quale scappano per andare su un’isola siciliana. Clara è introversa e tende a isolarsi, Irène è estroversa e sfacciata. Insieme fuggono per provare a vivere una stagione indimenticabile. Scavando nella nostalgia e nei sogni adolescenziali, il film spinge lo spettatore ad assorbire quel tipico languore proprio dei mesi caldi. Inoltre, lo indirizza a immergersi emotivamente dentro la sincera vicenda delle due fanciulle.
Presentato alla Berlinale 2024, il lungometraggio prende avvio dalle fantasie di Sironi. Quest’ultimo si è immaginato il dipanarsi della storia ascoltando la bellissima To Wish Impossible Things di The Cure, che compare come canzone nei titoli di coda. È attraverso le parole di Robert Smith che il cineasta ha idealmente pensato all’acqua, all’estate e a quelle ragazzine. Quindi Clara e Irène che scappano dalla malattia e che proprio dall’aria di mare vengono prima cullate e poi guarite. Il lavoro è fedele alla realtà nella narrazione della malattia ma, allo stesso tempo, lascia lo spettatore all’interno di un clima sognante.
La cura mentale in un mondo di soli giovani
Quell’estate con Irène è molto personale, dato che a Sironi la gioventù qui raffigurata ricorda i suoi amici del liceo. Da questa memoria immaginifica è scaturita una rilettura dei diari liceali e una visione nostalgica delle cassette VHS di fine secolo passato. Tramite le videocassette, che Irène e Clara imbracciano spesso osservando la realtà circostante, si segna una distanza con il mondo attuale. Guardare in quella telecamera sul finire degli anni ’90 significa sentirsi più giovani e infantili. C’è una percezione intrisa di magia e immaginazione del tessuto del video. Chiaramente un’ottica totalmente opposta all’epoca attuale dove governa il tutto e subito dettato dagli smartphone.
Le protagoniste si rintanano a Favignana, un luogo incantevole immerso in un’atmosfera cinematografica quasi palpabile, dove le preoccupazioni appaiono lontane. Parallelamente, trattandosi di un’isola, non si può scappare davvero dalla realtà. C’è una scena amorosa localizzata in una grotta focalizzata su Clara. La spelonca è un’allegoria narrativa e per comprenderla bisogna fare una premessa. Nell’isola siciliana hanno utilizzato molta roccia per costruire ovunque a livello edilizio; tutto qui è modellato dalla mano dell’uomo. Durante l’adolescenza facciamo a lotta con la natura, cominciando a renderci conto che siamo parte di essa. L’uomo e l’ambiente sembrano unirsi in questa particolare località delle Egadi, dove tutto si mescola. Le due si integrano nell’isola, si confondono con le rocce, l’acqua e le nubi. Il clima coriaceo si scontra con l’identità frastagliata propria dell’adolescenza e della malattia delle giovani.
Ciò che contraddistingue questo racconto formativo è la totale assenza di adulti. Questi ultimi sono solo sullo sfondo, figure non definite, il loro punto di vista è inesistente, quindi c’è solo lo sguardo delle diciassettenni. Gli altri personaggi sono infatti adolescenti con cui le fuggitive diventano amiche e intrecciano rapporti. Ed è per questo motivo che scappano facilmente dal centro in cui si trovano senza nessuno che le veda. Il film è voluto andare in fondo al cuore di ogni sognatore adolescente, quando la realtà non ha importanza e quindi è possibile scomparire. Con la scelta, voluta da Sironi, di seguire liberamente la recitazione spontanea delle due bravissime attrici.
Semplicemente vive(re)
Le immagini principali seguono la vita quotidiana delle sue figure, senza che accada nulla di eclatante. Ci sono Clara e Irène che preparano la colazione, che fanno un tuffo in mare o una gita in barca con coetanei. Non c’è la necessità di una fine conclusiva. Il lavoro vuole solamente raccontare un’estate libera e lontana dalla pesante realtà che aleggia silenziosa sulle ragazzine. Con l’evoluzione narrativa viene a noi l’elemento chiave della trama, un sentimento che si consolida nell’età adulta: la complessità della semplicità. Quell’estate con Irène, nonostante lo sfondo drammatico sulla malattia mentale, riesce a far sentire il senso delle cose per cui vale la pena vivere. Si trova disponibile per la visione a noleggio su Amazon Prime Video.

‘Quell’estate con Irène’ di Carlo Sironi (2024)