Underground
Senza ruolo – Un incontro con Roberto Nanni
“Roberto Nanni è figura sfuggente. Attento studioso, per esigenza di sopravvivenza più che di sopraffazione di strategie militari, ostinatamente intransigente verso i felicemente reclusi nella gabbia dell’intrattenimento, mostra nei gesti e nelle parole, nei movimenti rapidi degli occhi così come nel rapportarsi verso il prossimo, una s-misurata e viscerale intensità, sempre sull’orlo di una ribellione gentile nei confronti dell’ordine costituito.”
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15 anni agoon
<<Si perisce sempre a causa dell’Io che si assume, portare un nome è rivendicare un modo esatto di crollare>>
Roberto Nanni è figura sfuggente. Attento studioso, per esigenza di sopravvivenza più che di sopraffazione, come Brian Eno e Guy Debord, di strategie militari, ostinatamente intransigente verso i felicemente reclusi nella gabbia dell’intrattenimento, contro gli assetati di potere, i potenti, i potentati, contro i “patentati” e gli “arruolati”, mostra nei gesti e nelle parole, nei movimenti rapidi degli occhi così come nel rapportarsi verso il prossimo, una s-misurata e viscerale intensità, sempre sull’orlo di una ribellione gentile nei confronti dell’ordine costituito.
Su un divano della Libreria Flexi, servendosi di quello humour nero che per ogni spirito tragico rimane l’unica via di salvezza, confessa che a chi gli chiede che lavoro faccia, risponde con serenità d’essere giardiniere (e vorrebbe essere anche chimico)…
R – Essere sfuggente dalla situazione significa essere presente, anche troppo, nel presente. Cioè è dalla situazione che si scappa, ma non dal proprio contemporaneo, anche se è sempre importante non essere al passo coi tempi.
S – Inattuale…
R – Essere sempre inattuali. Essere inattuali, sembra una contraddizione in termini, vuol dire essere attuali, avere un particolare rapporto con la realtà, possedere quel realismo soggettivo che è interpretazione soggettiva della realtà.
Essere presenti nella situazione ha più a che fare con i registi di cinema, sempre inclini ad un certo presenzialismo. Devono essere presenti al festival, devono fare un film ogni anno per andare a Cannes o a Venezia. Devono essere presenti alla conferenza stampa. E tutto ciò è una questione che non m’appartiene, non m’interessa. È un fatto di ruolo, di “appartenere”. Credo che il cinema sia diventato estremamente ipocrita, ma non talmente interessante da essere patologico. Solamente a certi livelli diventa patologia e allora lì diventa interessante. Ma nella condizione in cui siamo adesso, si tratta solamente di un piccolo borghese problema di conservazione di sé stessi. Cioè un problema da “Findus”. Poi anche quelli si buttano, anche se li tieni nel congelatore, dopo un po’ vanno a male, c’è la scadenza. Ma neanche si ricordano della scadenza. La gente continua a mangiare delle cose già scadute, avariate. La vita è bella non perché è varia, ma perché è avariata.
S – Ti batti, con ostinazione, contro questo inscatolamento in una definizione precisa, sia del tuo lavoro che della tua persona.
R – Assolutamente. Perché tutto ciò che viene definito in un quadro, in un frame, fa parte di un sistema, di una necessità di definire persone all’interno di un ambito, di un rapporto preciso, in un angolo e questo serve molto al potere, qualunque potere esso sia, anche quello cosiddetto indipendente. Essere classificato in qualcosa, lì risiede …essere in una categoria, per qualsiasi persona che calpesta questo globo, è terribile. L’importante è slittare, non essere dentro.
Non c’è né eroe positivo né negativo, né bene né male, in questo mondo assolutamente la realtà non esiste, o almeno non esiste come noi. Siamo l’unica realtà su una terra che, immaginandola sferica, si è completamente unta di sapone e scivola, si scivola continuamente. In qualche momento qualcuno può anche dimostrare di saper stare in piedi, in equilibrio (e questo Keaton ogni tanto lo fa) con un esercizio di bravura, ma a dimostrare che?! Che si potrebbe anche fare i furbi, cioè Chaplin, ma che non ne vale la pena, a meno che non ti capiti d’aver successo e soldi.
Non farti dare un’etichetta, distruggere le certezze. Se ti mettono in quella cosa, cambia! Non farti inserire in un posto. Certi termini come “docu-fiction” sono pezzi di manzo. Non carcassa, ma pezzi di manzo. Sono sempre surrogati di qualcosa.
È più interessante piuttosto avvicinarsi a persone “malate” in qualcosa, persone che hanno delle ossessioni, neanche delle nevrosi o delle malattie…
S – Qui mi viene da pensare al Deleuze che parla di schizofrenia, intendendo questa non come patologia, bensì come volontaria attitudine a smarcarsi, estrema rifiuto esistenziale del gioco di ruolo”, irresistibile idea di uscire da quel soggetto assegnatoci dall’esterno e attraverso il quale prediamo parte all’infernale macchina delle obbligazioni sociali.
R – Una cosa che mi è sempre piaciuta moltissimo è camminare senza avere un obiettivo. E penso si tratti di un lusso. È forse il più grande lusso che ci si può permettere. Lo facevo già da bambino, a Bologna o anche altrove. È il caso, la possibilità di uscire senza pensare a quello che sarebbe potuto succedere nelle ore successive. Potevi “vedere”. Nemmeno prefissandoti l’esplorazione di un quartiere o cose simili. Non è neanche precisamente quel che avviene ne La passeggiata di Walser, il mio andare in giro è più vicino a esperienze come quelle del Bataille de Le Bleu du ciel, quelle di Breton e certamente di Baudelaire e Leopardi. Le cose migliori succedono così…
S – …senza darsi appuntamento…
R – Esatto. Se non con il caso.
S – Il tuo Dolce vagare in luoghi selvaggi mi sembra si ricolleghi proprio a questo deambulare al limite dello smarrimento.
R – Si. È una frase di Holderlin. È un dolce vagare tra i luoghi, sacri o meno. E mi piace tuttora qui a Roma. Arrivare all’ultima fermata della metropolitana e percorrere chilometri a piedi zone che assolutamente non conosco e non frequento. Faccio uso dei mezzi pubblici e dei miei piedi piuttosto che dell’automobile. Mi piace molto camminare, la trovo una dote fondamentale, preferibile anche alla bicicletta, pur venendo dall’Emilia Romagna dove inizi a pedalare da bambino. (Forse si impara prima ad andare in bicicletta bene piuttosto che a leggere…).
C’è anche una cosa di Antonioni a riguardo. Parlava del camminare e del fermarsi agli angoli delle strade. È un’abitudine molto importante per chi si “occupa” di arte figurativa, in movimento o anche statica. Ti permette di darti un punto, di fermarti in un angolo e guardare, o di entrare in un bar e scoprire degli universi.
S – E qui io cito Godard (che nel suo testo fa riferimento allo stesso Antonioni):
Non si sa bene che cosa si farà l’indomani, ma alla fine della settimana si può dire, davanti al risultato: ho vissuto. Ci si accorge che non va diversamente con il cinema. si scorge qualcuno per la strada; su dieci passanti, ce n’è uno sul quale ci si sofferma più a lungo, per una ragione o per un’altra. E poi si inizia a filmare la sua vita.
R – Quando entri in un piccolo contesto in realtà lì c’è un mondo, mentre quando tu vai in luoghi più pubblicamente deputati a essere rappresentativi del mondo non trovi niente. Il mondo si trova nei piccoli posti, nei tavolini dei luoghi, nella metropolitana, nella quotidianità.
Ieri mi trovavo alla fermata della metropolitana per la demolizione di una vecchia automobile, sono entrato in un bar e c’era un mondo che si apriva. In quel luogo nei pressi della fermata Eur Fermi c’era di tutto. Un mercato, una grande palazzo dell’Agip con lavori ingressi che si aprivano e chiudevano di continuo, un lungo marciapiede che gli stessi abitanti provvedevano a pulire. E poi sotto scendi a prendere un caffè, ascolti le conversazioni, etc. non so quanto sarebbe interessante fare un documentario su un contesto come questo. Però puoi rubare qualcosa e poi farlo “esplodere” altrove.
Molto meglio che andare alle feste dove ci sono le persone che parlano di cinema, tra chi non è curioso nei confronti degli altri, figure detestabili come molti attori, attrici e registi interessati ad una istituzionalizzazione delle proprie nevrosi, non delle patologie.
S – E lo stesso atteggiamento di erranza esistenziale si trasferisce nel tuo rapportarti al linguaggio filmico, ai supporti,gli strumenti, i materiali di cui fai uso…
R – Si, non mi formalizzo neanche sui mezzi. Non soffro di un feticismo da collezionisti di trenini della domenica. Ho lavorato per tanto tempo con il super8 perché quando avevo sedici anni c’era quello. Se fossi nato quindici anni fa avrei fatto le mie prime cose con una telecamera digitale. Non mi irrigidisco nell’uso di un solo mezzo. Ognuno di essi ha la sua poetica. Il super8 ti abitua ad una maggiore attenzione, poiché la pellicola costa di più e ti costringe alla concentrazione, mentre chi gira in digitale, non spendendo nulla, ha la facoltà di girare molto di più, troppo.
S – La non sudditanza al mezzo ti rende anche in qualche modo “senza forma, senza formato”…
R – Si, poco parmigiano Reggiano, c’è poca forma, c’è poco Topo Gigio…i sorrisi obbligati, il non dover mai dire che non ti è piaciuto il lavoro di qualcuno, l’omologazione, l’esser trattato con freddezza se sanno che non ti piacciono certe cose, pensare che io sia a Roma per fare un lungometraggio. Ma non c’è nessun medico che prescrive di fare per forza un lungometraggio. Perché? È lo stesso criterio in base al quale si giudica un quadro a partire dalle dimensioni o un libro in base al numero delle pagine. Più è così, più sfuggo da questa cosa, dal cortometraggio inteso come film corto, soggetto corto e piccolo e dunque costretto a poter dire poco, dal corto come “trampolino” di lancio per farsi notare dal produttore. Ma in tal caso mi sembra più che si tratti di un lanciarsi da un trampolino verso una piscina senz’acqua.
S – Non ti vendi insomma…
R – Beh, ci si vende dal momento in cui si nasce…
S – Come dice Carmelo Bene: <<Cominciò ch’era già finita […] non si nasce per lavorare, spiegarsi, pensare; non si nasce nemmeno a de-pensare, perché anche questo è occuparsi del pensiero. Non si nasce a gestire, all’agire-patire: ci è tutto inflitto dalle circostanze>>
Al di là del problema del nascere e dell’iniziare, ti piace enfatizzare gli errori…
R – Gli errori sono sempre molto interessanti. Credo che la tecnologia sia interessante proprio se riesci a capire quali sono gli interstizi dove loro falliscono. Tutta la tecnologia fallisce in qualche modo. È sempre così. Altrimenti non sarebbe tecnologia. C’è sempre un errore alle spalle. Qualcosa che non è esattamente nei loro piani. Se tu scopri quella falla o quella delicata ferita che hanno all’interno, la fai esplodere, ampliare, diventa potentissima. Perché nasce qualcosa di incredibile, il loro fallimento viene moltiplicato all’ennesima potenza, un fallimento esploso è bellissimo. L’importante è fallire, è il fallimento. E come uno fallisce. C’è gente che fallisce male negando il fallimento. Quando vedi i lavori di quel genio totale che è Francis Bacon, scopri che lui usava addirittura della vernice per carrozzieri, qualcosa di impensabile per un qualche Guttuso, pittore terribile ed emblema di una certa Italia.
S – luoghi deputati e strumenti deputati…
R – Non mi piace il pittore col cappello da Montparnasse. Guttuso era un uomo d’apparato. Quando si presenta a Bacon dicendogli << maestro, sono felice di conoscerla, noi siamo colleghi>> – per inciso, posso capire se due persone che fanno gli autisti, i salumieri, gli assicuratori, si può parlare d’esser colleghi, ma in pittura non dovrebbe esserci un sindacato di categoria – <<Ah, lei è Guttuso, risponde Bacon, posso sapere come mai la classe operaia non le ha ancora spaccato la testa!?>>
E l’Italia mi sembra un paese pieno di Guttuso. Abbiamo avuto un Alberto Grifi, uno dei maggiori cineasti di questo secolo, e poi abbiamo Bertolucci, ovvero un modo un po’ retorico di fare cinema che non mi piace. E a Roma sembra ci sia un ordine tacito per cui non si può parlare male di certe persone, non si può dir le cose che pensi, che ti muovi nelle difficoltà. Ma io sono dalla parte di Grifi, di Stan Brakhage, di Derek Jarman, di Kenneth Anger o di un Lynch. Non sono neanche un grande fan di Pasolini come cineasta, se non di una cosa fondamentale, Salò, sul quale invece Giuseppe Bertolucci ha fatto un ottimo lavoro. Salò è un capolavoro, uno dei film più devastanti, più scomodi. È morto per quel film. Il cinema non consola. Non dovrebbe essere intrattenimento. Ma adesso ad esempio, vai a vedere Velocità massima e ti accorgi che magari non hanno mai letto Crash di Ballard e tutta la patologia della morte che vi ruota intorno. È cinema sciocco, “paraculo”, nel vero senso del termine. Il punto è non consolare, è creare dei dubbi, destabilizzare, è quello che era Bernini. Il cinema italiano è sempre stato molto consolatorio, forse perché abbiamo anche il Vaticano. Lo stessso neorealismo, pur se Zavattini era un grande, era sempre una messa in scena del reale. E non si mette in scena il reale. Il reale è il reale. Mi piace piuttosto l’interpretazione della realtà.
Insomma, non sentirò mai dolore se non vedrò più un film di un certo cinema italiano che chiamano d’interesse culturale. Hanno una sicurezza e un’arroganza che non condivido. Il loro modo di agire è speculare a quello mostruoso di Berlusconi. La ricerca del successo e del ri-conoscimento è la stessa, identica. Non agiscono con una loro concezione personale del lavoro, ma si muovono se non perché, attraverso il loro ruolo e attraverso l’utilità del lavoro che gli altri concedono loro, possono “rappresentare” qualcosa o qualcuno nel mondo. Casomai Vite da ballatoio di Segre mi dispiacerebbe non vedere più.
In un incontro con Kleist, Goethe diceva: << per essere tra i maggiori devi stare al passo con i tempi>>, mentre viceversa Kleist rimaneva fuori tempo, “inciampava” dal presente. E facendo così è diventato immortale. Goethe era in realtà un romantico, si faceva inquadrare in una precisa categoria che era quella del romanticismo. Kleist era tra quelle persone – abbiam già citato Carmelo Bene, Deleuze, Leopardi – che hanno tentato il superamento delle forme dell’arte, che sfuggono alle definizioni, mentre Goethe era in una corrente, così come quello che si tende a chiamare il nuovo cinema italiano, quello che va da Moretti a Luchetti. Ho molta stima invece di Beppe Gaudino, lui è un caso ed un’eccezione da ricordare per molto tempo. Giro di lune tra terra e mare è un film immenso.
Roma, Aprile 2010