Polytechnique di Denis Villeneuve si confronta con un fatto di cronaca che non ammette pacificazione narrativa. Il massacro del 6 dicembre 1989 all’École Polytechnique di Montréal non viene ricondotto a un episodio isolato né a una devianza individuale facilmente archiviabile. Due elementi storici emergono come irrinunciabili: la selezione deliberata delle vittime in base al genere e la natura ideologica del gesto, che si inscrive in una violenza misogina esplicita. Il film non cerca una spiegazione causale né una ricostruzione rassicurante; al contrario, lavora per sottrazione, lasciando che l’evento rimanga opaco, pesante, non risolto. Questa scelta lo colloca in un dialogo implicito con il presente, in cui le stragi nelle scuole continuano a ripetersi, mutando contesto e motivazioni, ma conservando la stessa capacità di incrinare la fiducia collettiva nei luoghi deputati alla formazione e al futuro.
La parola scritta come autoassoluzione ideologica
La lettera lasciata da Marc Lépine dopo il massacro rappresenta uno dei punti più disturbanti della vicenda storica. In essa l’autore del gesto rifiuta preventivamente l’etichetta di follia, rivendicando una presunta razionalità e un’autopercezione di lucidità intellettuale:
«Anche se i media mi attribuiranno la qualifica di “Folle Omicida”, io mi considero una persona razionale ed erudita, che solo la Morte ha costretto a intraprendere atti estremi.»
Il testo è attraversato da una costruzione ideologica coerente, fondata su un risentimento sistematico verso le donne e il femminismo, accusati di sottrarre privilegi e di manipolare il discorso pubblico. Ancora più inquietante è la presenza, nella stessa lettera, di una lista di femministe che Lépine avrebbe voluto uccidere se ne avesse avuto
Bianco e nero, spazio neutro e timeline spezzata
L’uso del bianco e nero non risponde a un’esigenza estetica, ma a una precisa posizione etica. Sottraendo il colore, Polytechnique priva le immagini di ogni possibile seduzione, collocandole in una dimensione sospesa, quasi fuori dal tempo. Questa scelta visiva si intreccia con una struttura narrativa che rifiuta la linearità: la timeline del film è frammentata, attraversata da anticipazioni e ritorni, da un futuro che irrompe nel presente e da un passato che riaffiora quando l’evento sembra già compiuto. Non si tratta di un gioco formale, ma della messa in scena di una temporalità traumatica, in cui il tempo non scorre ma si accumula, si ripete, si incrina.
All’interno di questa timeline spezzata, lo spazio assume un ruolo centrale. L’École Polytechnique non è un semplice scenario, ma un dispositivo che promette ordine, razionalità, sicurezza. Corridoi, aule, scale sono progettati per organizzare il sapere e disciplinare i corpi. Proprio per questo, quando la violenza attraversa questi luoghi, non lo fa come una profanazione spettacolare, ma come un cortocircuito interno. Lo spazio non oppone resistenza, non protegge, non reagisce: permette. Villeneuve filma l’università come un ambiente impersonale, neutro, che osserva senza intervenire, rivelando la fragilità delle istituzioni moderne fondate sulla fiducia nel funzionamento delle strutture più che sulla responsabilità etica.
Spazi educativi e caos: dal Guernica a Elephant
Questo discorso sullo spazio trova un’eco potente nel confronto con Elephant di Gus Van Sant. Anche lì la scuola è filmata come un luogo attraversabile, un labirinto senza centro, in cui i corpi si muovono seguendo traiettorie apparentemente innocue. In Elephant i lunghi piani sequenza dilatano il tempo e svuotano lo spazio di qualsiasi funzione protettiva: la scuola non è rifugio né comunità, ma una struttura neutra, indifferente a ciò che accade al suo interno. Quando la violenza esplode, non rompe l’equilibrio: ne rivela l’illusione.

In Polytechnique questa riflessione si condensa simbolicamente nella presenza di Guernica di Picasso. Il dipinto, emblema del caos e della distruzione collettiva, sembra anticipare ciò che sta per accadere: corpi spezzati, urla mute, una violenza che annienta ogni ordine. Come nel quadro, anche nel film non esiste un centro eroico né una narrazione risolutiva. La violenza non viene spiegata, ma cristallizzata. Gli spazi del sapere, nati per costruire il futuro, diventano luoghi incapaci di immaginarlo. Non perché falliscano tecnicamente, ma perché non sono pensati per affrontare il male che li attraversa.
In questo senso, Polytechnique non è un esercizio di stile né una semplice ricostruzione storica. È un film che interroga il rapporto tra razionalità, spazio e violenza, mostrando come il caos non abbia bisogno di distruggere le strutture per manifestarsi: gli basta attraversarle.