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‘Optogramma’: intervista a Luca Delpiano

Il giovane regista racconta il suo cortometraggio, tra immagini d’archivio e intelligenza artificiale

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C’è un momento nella vita dei nostri ricordi in cui la loro nitidezza svanisce, e le immagini adottano un aspetto instabile. Optogramma nasce proprio dalla fragilità di questo spazio intermedio: il luogo in cui la memoria resiste e allo stesso tempo cede, si deforma e si affievolisce. Le ventiquattro foto tratte dall’archivio di Giovanni Tomatis — cineoperatore del muto torinese — avviano un percorso che non mira a rievocare un passato, ma, piuttosto, ne analizza la dissoluzione. Riprendendo l’antica suggestione dell’optografia — una pratica ottocentesca nata dal desiderio di estrarre dalla retina l’ultima immagine vista prima della morte —, Luca Delpiano indaga, dunque, il momento in cui il ricordo smette di essere nitido e comincia a disfarsi.

L’intelligenza artificiale, utilizzata per la realizzazione del cortometraggio, diventa un efficace e potente strumento di erosione visiva. Attraverso processi di interpolazione e animazione, le fotografie dapprima si mostrano nella loro chiarezza, per poi contaminarsi lentamente, fondersi e scivolare l’una nell’altra.

Nel loro lento disfarsi, queste immagini rivelano il vero oggetto del film: non ciò che ricordiamo, ma ciò che resta quando il ricordo si sgretola. In un’epoca — la nostra — che accelera per dimenticare, Optogramma restituisce la fragile bellezza dell’oblio.

Optogramma è stato presentato al Freak Film Festival 2025.

La genesi del film

Come si è sviluppata l’idea di Optogramma?

Mi sono avvicinato all’archivio fotografico di Giovanni Tomatis circa quattro anni fa, quando lavoravo nella biblioteca di Dogliani, il paese in cui lui è cresciuto. Nel 2021 il comune voleva organizzare una mostra e io ho collaborato all’allestimento. Sentivo, però, il desiderio di sviluppare un progetto più personale con quelle immagini. All’inizio avevo provato a realizzare semplici montaggi, una successione lineare di fotografie, ma percepivo che mancava qualcosa e alla fine ho accantonato l’idea.

Qualche anno più tardi ho visto alcuni film di Michael Snow, in particolare One Second in Montreal, un cortometraggio composto da una trentina di fotografie della città, completamente muto. La cosa più affascinante di quel film è il modo in cui lavora sul tempo: ciò che sembra una sequenza di immagini rappresenta in realtà un unico istante. Snow gira a 16 fotogrammi al secondo per 16 minuti, mentre le fotografie hanno un tempo di esposizione medio di un trentesimo di secondo. È come se quel film fosse letteralmente fatto di tempo, un secondo dilatato e scomposto nelle sue componenti.

Con Optogramma volevo provare a visualizzare un processo simile di “istantaneità estesa”. L’idea di base era far confluire ogni fotografia nella successiva. Con l’intelligenza artificiale abbiamo creato un gioco di interpolazioni: la dissolvenza incrociata non è più un semplice passaggio tra due immagini, ma viene progressivamente eliminata, sostituita da nuovi fotogrammi generati per connettere le due foto. Anche qui c’è un lavoro sul ritmo: ho selezionato 24 fotografie e il film scorre a 24 fotogrammi al secondo.

Per me il corto è diviso in tre sezioni: la successione pura delle foto, il processo di dissolvenza incrociata e infine l’animazione vera e propria. Nei primi tre secondi, dove le foto “flickerano”, la sequenza si ripete tre volte: 24 immagini, 24 fotogrammi al secondo. Poi quello stesso ciclo torna, ma progressivamente “consumato”. Questa è stata la vera genesi: volevo capire come rendere visibile un processo di trasformazione del tempo e dell’immagine.

L’altra cosa che mi interessava molto era il modo in cui, attraverso questa graduale corrosione, le fotografie perdono nitidezza e diventano sempre più amorfe. Credo che il film, in fondo, parli di memoria: un evento vissuto ha una sua immagine chiara, definita; ma più ci si allontana nel tempo, più quel ricordo si sfuma, fino a diventare qualcosa di completamente autonomo rispetto al suo referente originale.

Il lavoro sul materiale d’archivio

Nel tuo cortometraggio presenti gli scatti di Giovanni Tomatis. Cosa ti ha spinto a soffermarti proprio su questa figura? C’è qualcosa che ti ha colpito in particolare su di lui?

L’archivio di Tomatis conta circa 300 fotografie: ci sono scatti dei set del cinema muto, come Maciste o Cabiria, ma anche molte immagini di Torino e dei luoghi che lui attraversava mentre lavorava. Quello che mi ha colpito maggiormente è che molti di questi scatti hanno un’atmosfera quasi liminale, surreale: paesaggi svuotati, non-luoghi che sembrano curiosamente contemporanei, pur essendo stati realizzati con attrezzature d’epoca.

Per esempio, il primo scatto che si vede nel corto sembra un paesaggio montano, ma in realtà è un modellino: lo si può intuire dalle prospettive irreali, ma lo spettatore non ha quasi il tempo di accorgersene, perché ogni immagine rimane in campo solo tre secondi. Mi interessava costruire una sequenza che desse la sensazione di entrare gradualmente in un mondo sconosciuto e completamente simulacrale: dai modellini alle case, dalle strade ai fiumiciattoli, fino al dirigibile finale che “esce” da questo universo.

La selezione delle 24 fotografie è stata la parte più difficile. Non cercavo una narrazione, ma un percorso sensoriale: ogni scatto doveva definire un’impressione specifica e portare lo spettatore un passo più avanti in questo mondo.

Un altro elemento su cui ho lavorato molto è stato il voice-over. Nei miei lavori precedenti mi interessava lo sfasamento tra immagine e suono: vedere una cosa e sentirne un’altra. In Optogramma volevo accentuarlo. Le foto rimandano a un’epoca definita, mentre la voce le interpreta in un modo totalmente diverso. All’inizio le due tracce procedono parallele, senza incontrarsi; eppure la voce sembra “corrodere” le immagini, scioglierle. Quando il voice-over si interrompe e l’immagine si è ormai dissolta, i due binari finalmente confluiscono: nella parte finale, più astratta e animata, credo si crei un vero equilibrio tra suono e immagine, un ambiente condiviso.

Un frame di Optogramma

L’utilizzo dell’intelligenza artificiale

In Optogramma l’intelligenza artificiale diventa uno strumento creativo. Cosa cercavi attraverso il suo uso che altri mezzi non ti avrebbero dato e quale valore aggiunto pensi abbia portato il tuo film?

Optogramma è il secondo corto in cui integro l’intelligenza artificiale, ma è il primo in cui ne ho compreso davvero le potenzialità tecniche. Lavorando sulle fotografie di Tomatis, volevo concentrarmi sul tema della transizione tra un’immagine e l’altra. E qui l’IA si è rivelata indispensabile.

Mi interessava anche un parallelismo storico: ai tempi di Tomatis il cinema era un medium in cerca di legittimazione culturale. Per affermarsi, imitava modelli letterari o pittorici. Oggi l’intelligenza artificiale attraversa un processo simile: tutti guardano al fotorealismo come parametro di misura, paragonandola alla fotografia tradizionale. È un modo per testarne i limiti prima che sviluppi un proprio linguaggio.

L’IA lavora su dataset e informazioni archiviate. Noi abbiamo fatto la stessa cosa: abbiamo dato all’algoritmo un archivio di immagini e gli abbiamo chiesto di interpolarle, generando fotogrammi di transizione. Era un processo quasi circolare, perfettamente coerente con la natura meccanica del mezzo.

In più, le foto di Tomatis hanno già in sé qualcosa di leggermente inquieto e surreale; l’automatismo dell’IA amplifica questa sensazione, rendendo la trasformazione ancora più straniante. Per questo dico che non avrei potuto realizzare questo film con un altro strumento.

Come valuti l’impiego dell’IA nel cinema contemporaneo? Potrebbe ridefinire o sostituire il ruolo del regista?

C’è molta paura intorno all’IA: si dice che toglierà lavoro a illustratori o videomaker perché può generare immagini o video in pochi secondi. Ma, secondo me, è un ragionamento superficiale. Quando si ingaggia un artista, non si sceglie qualcuno solo per la sua abilità tecnica: si sceglie la sua sensibilità estetica, il suo pensiero critico, il suo sguardo. L’IA, in questo senso, è uno strumento.

Oggi si produce moltissima “spazzatura” con l’IA perché la maggior parte degli utenti digita un prompt generico e accetta il primo risultato. Ma non credo che l’IA produca più mediocrità di quanta ne producano pittura, scultura o cinema quando usati senza consapevolezza.

Più l’IA andrà a sostituire compiti tecnici, più diventerà fondamentale il ruolo di chi la usa: qualcuno con una forte cultura visiva, capace di dire “questo non funziona, questo sì”. È lo stesso discorso della fotografia: puoi avere la macchina migliore del mondo, ma se non sai vedere la luce, farai immagini mediocri.

Memoria personale e collettiva nel cinema

Il tuo film è descritto come «un’opera su un’epoca ossessionata dal desiderio di dimenticare sé stessa e senza più alcuna aspirazione o ricordo». Secondo te il cinema può ancora essere un mezzo efficace per preservare la memoria collettiva e personale, oppure rischia di ridursi a un archivio di momenti privati? E quanto pensi che la dimensione intima dei ricordi altrui possa coinvolgere il pubblico? Penso, per esempio, al film As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty di Jonas Mekas, costruito interamente su frammenti della sua vita personale.

Penso che il cinema dominante sarà sempre legato al profitto, e per questo continuerà a basarsi su modelli narrativi riconoscibili. Ciò non toglie che opere come quella di Mekas  abbiano una forza enorme. Mekas e Brakhage non raccontano storie: mostrano frammenti della propria vita. Eppure, paradossalmente, è proprio attraverso quelle immagini personali che riescono a evocare ricordi che appartengono allo spettatore.

Le loro opere affermano che anche la vita privata ha valore cinematografico. Hitchcock diceva che il cinema è la vita senza le parti noiose; loro sostengono il contrario: la vita è nelle parti noiose, nei tempi morti, nelle connessioni tra persone, tutto ciò che il cinema narrativo tradizionalmente esclude.

Un’immagine del film As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty

Secondo te che rapporto c’è tra autobiografia e universalità?

Nel cinema dominante la biografia diventa quasi sempre narrazione: un racconto strutturato, molto lontano dal fluire reale della vita — dal risveglio lento al letto, ai tempi morti, a ciò che raramente entra in un film tradizionale. Solo autori come Chantal Akerman hanno portato il quotidiano nella sua interezza sullo schermo, e non a caso si tratta di cinema marginale rispetto al mainstream.

Le opere di Mekas, Akerman o Snow sono film meditativi, che fanno sentire il tempo allo spettatore. Akerman diceva che il cinema narrativo ti fa dimenticare che il tempo passa: i loro film, invece, ti costringono a viverlo.

Optogramma, in fondo, riflette su questo: le fotografie sono oggetti statici, “morte incarnata”, come dice Sontag. L’animazione che ho generato è un movimento artificiale, simulato, che non restituisce la vita ma ne suggerisce l’ambiguità. Mi interessava proprio lavorare su questa zona grigia tra immobilità e memoria, tra ciò che resta e ciò che svanisce.