Rome International Documentary Festival

‘My Therapist Said, I Am Full Of Sadness’: il racconto autobiografico di Tedja

Una storia di introspezione e vulnerabilità che trasforma esperienze personali in un racconto universale di identità, famiglia ed emozioni.

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My Therapist Said, I Am Full Of Sadness è il recente documentario della regista non binary cino-indonesiana Monica Vanesa Tedja: un’opera profondamente personale, presentata al Rome International Documentary Festival.

Si tratta di un lavoro delicato e visivamente evocativo, che esplora con sorprendente sincerità il rapporto della regista con il proprio passato. 

In questo modo, il cortometraggio entra pienamente nel solco del cinema autobiografico contemporaneo che mescola archivio personale, confessione narrativa e una messa in scena poetica del vissuto. 

A cuore scoperto

“So, do you think I’m happy?” 

Una domanda che cattura subito l’essenza di My Therapist Said, I Am Full Of Sadness.
La storia ruota attorno a una giovane donna queer che si confronta con la propria identità, il proprio passato familiare e la sensazione di non appartenere mai del tutto al luogo in cui si trova.

I temi dell’allontanamento e del desiderio di fuga evocano un’atmosfera che ricorda Girlhood di Céline Sciamma, dove l’identità si forma nell’oscillazione costante tra appartenenza e distacco.
La tensione tra il bisogno di restare e quello di andare altrove è raccontata con grande delicatezza, sottolineando come, specialmente in contesti culturali asiatici e comunitari, il “restare fermi” possa essere tanto un obbligo quanto un dolore.

Il film restituisce così un senso di universalità: chiunque, almeno una volta, ha cercato nella memoria la radice di una tristezza che non ha mai saputo spiegare. 

Tedja costruisce la narrazione senza mai ricorrere a una struttura lineare. I ricordi, le conversazioni intime e le riflessioni interiori si intrecciano come frammenti di un diario che si apre pagina dopo pagina.

Nuda davanti al mondo

Sebbene sia un documentario, a dominare la scena è la stessa Monica Vanesa Tedja, che non solo dirige ma diventa anche il cuore emotivo dell’opera. La regista si mette completamente in gioco, mostrando un coraggio raro nell’aprirsi con la propria famiglia e nel condividere la propria esperienza personale con il pubblico. 

Il film è profondo, a tratti doloroso, ma allo stesso tempo dolce e autentico, riuscendo a trasmettere la complessità dei rapporti familiari e la ricerca di accettazione senza sacrificare le proprie radici. 

Per realizzare questo documentario, Tedja ha scelto di spogliarsi, per rendere pienamente visibile la propria vita interiore e, non solo, anche la sua vulnerabilità. Questa apertura crea un ponte emotivo tra regista e spettatore, permettendo a chi guarda di riflettere sia sulle proprie esperienze personali sia sulle relazioni familiari. La presenza della regista sullo schermo, intensa e genuina, è accompagnata da una capacità unica di trasformare i ricordi e le emozioni in immagini cinematografiche potenti e riconoscibili, rendendo la narrazione non solo personale ma anche universale. 

La sensibilità di Tedja si percepisce anche nel modo in cui valorizza le figure secondarie, in particolare la famiglia, che nel documentario assume un ruolo fondamentale. Il film offre uno sguardo nuovo, onesto e non stereotipato, mostrando anche genitori che, pur con difficoltà, riescono a essere presenti e di supporto. Per gli spettatori queer asiatici, questa rappresentazione potrebbe risultare quasi liberatoria.

Il fascino del retrò

Il lato tecnico rappresenta uno degli aspetti più creativi dell’opera. Tedja costruisce il film come una sorta di video diario, un mosaico di immagini intime. Alcune sequenze sono girate in 4:3, rimpicciolite al centro dello schermo, come se fossero ritrovate per caso in una vecchia videocamera: frammenti di infanzia, momenti di quotidianità, flash che evocano un tempo sospeso.
Questa scelta stilistica ricorda l’approccio diaristico e sperimentale di Minding the Gap di Bing Liu. Gli scatti colorati, nostalgici, imperfetti, generano un’atmosfera che oscilla tra crudezza e tenerezza. 

Il montaggio alterna registrazioni contemporanee e materiali di archivio, creando una vera e propria macchina del tempo emotiva. 

La fotografia segue questa estetica intima: luci naturali, toni soffici dal beige al rosa polvere, passando per il blu nebbia, e contrasti delicati che trasformano ogni scena in un frammento di memoria. L’effetto è quello di un album fotografico che prende vita, svelando il processo di crescita emotiva di una persona che cerca di fare pace con la propria storia.

Il coraggio di sentire

My Therapist Said, I Am Full Of Sadness non si limita a raccontare una semplice storia, ma invita lo spettatore a guardare dentro di sé. In un panorama dove la rappresentazione queer intersezionale è ancora insufficiente, l’opera di Tedja si distingue per la capacità di raccontare non solo un’identità, ma un vissuto universale fatto di crescita, dolore, nostalgia e amore. 

E allora, forse il valore più grande di questo corto risiede nel mostrare come la vulnerabilità non rappresenti una debolezza, ma diventi un ponte: un collegamento verso gli altri, verso la propria storia e verso l’identità di ciascuno. 

La tristezza non va considerata un peso da eliminare, ma un luogo da attraversare per favorire la comprensione e l’accettazione di sé stessi. 

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