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‘In the box’: intervista a Francesca Staasch
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2 giorni agoon
C’è un luogo in cui il dolore non può urlare, ma resta sospeso, imprigionato tra gesti quotidiani e silenzi ingombranti. È proprio da lì che nasce In the Box, cortometraggio scritto e diretto da Francesca Staasch, presentato in concorso al Rome Independent Film Festival. Tre storie, altrettanti personaggi, un unico filo conduttore: la fatica di vivere e la necessità di sopravvivere a ciò che ci spezza.
Parlando del progetto in un’intervista, Staasch ha raccontato le motivazioni e le scelte dietro il corto.
L’origine del progetto
Questo è un progetto molto interessante e mi è piaciuto molto. Da dove nasce l’idea del corto? C’è stato un evento o un’esperienza personale che ha acceso la necessità di raccontare questa storia?
In the box parla di fatica di vivere – quella fatica che proviamo e abbiamo provato tutti, che in certi momenti della vita è più pronunciata ma che rimane sempre lì, come una specie di sottofondo. Non ci si può permettere quasi mai di dare libero sfogo al dolore. Non solo perché è sconveniente, anche perché non è efficace, ai fini della quotidiana sopravvivenza. Meglio implodere e stringere i denti, andare avanti. Ma è una modalità esistenziale che ti logora e ti senti dentro una scatola. Mi trovavo in un momento così e volevo raccontarlo. Non un arco, una rivelazione, una presa di coscienza, ma solo il percorso verso il lasciare sfiatare un po’ di quella fatica, tra le braccia di chi capita, perché si è arrivati al limite.
La “scatola” del titolo è un simbolo potente. Come sei arrivata a questa metafora e cosa rappresenta per te?
Il titolo viene da come mi sentivo – dentro una scatola incapace di espandermi. E per una mia personale opposizione all’idea – molto caldeggiata nel mondo dei creativi – di pensare out of the box. Niente in contrario, per carità, ma magari prima diamo un’occhiata a quello che c’è all’interno della scatola.
Lo sviluppo
Il corto si sviluppa attraverso tre storie e personaggi distinti, interpretati da attori eccellenti. Come sei arrivata alla scelta di questi ruoli e interpreti?
Lino Guanciale e Sara Borsarelli sono due attori con cui avevo già lavorato in passato. Con Lino a teatro nel mio monologo Il Dolce Mondo Vuoto e poi nella mia opera prima il lungometraggio super low budget Happy Days Motel con Sara in teatro, su una mise en espace ai Fori di Traiano sul personaggio di Elettra, e poi all’interno del format comico U.G.O. Di entrambi questi interpreti conoscevo i diversi registri e sapevo che sarebbero stati perfetti per i ruoli. Lino Guanciale è stato il primo che ha letto la sceneggiatura e ha sposato il progetto anche nella veste di produttore, aiutandomi a potenziare la storia e la visione, affiancandomi un ottimo team di sviluppo e produzione. Giulia Schiavo è stata scelta attraverso un processo di casting, prove e chiacchiere. Lo stesso è successo per Pia Engleberth e Arianna Addonizio – mentre di Fabiana Bruno l’ho conosciuta perché ha interpretato con grande levità un personaggio di un mio testo teatrale (Il Condominio di Giulia, scritto da me regia di Riccardo Scarafoni) – e le ho offerto la parte.
Il dolore e la perdita vengono mostrati in maniera silenziosa, attraverso gesti e piccoli dettagli. Qual è il significato di questo approccio silenzioso nella narrazione del corto?
Siamo in un momento storico in cui ci si mostra per nascondersi, in cui siamo sommersi dal rumore, dall’ostentazione e dall’inquinamento visivo. Andare a cercare una complessità nel piccolo, nel mondano, mi sembrava il modo giusto di raccontare la fatica – scavando di non detto, in modo da portare in superficie più livelli narrativi di una sola immagine.
Il formato
Il film è girato in un formato quadrato, quasi claustrofobico. Quale significato volevi attribuire a questa scelta?
Volevo rendere visivamente l’idea di essere dentro una scatola, l’idea che non ci fosse via d’uscita. È stata una decisione presa insieme al Direttore della fotografia Carlo Rinaldi – il formato è tematico rispetto al film – la fatica di doversi gestire dei confini sociali stringenti voleva essere restituita attraverso una fotografia claustrofobica.
I fiori ricorrono spesso nel corto. Come è nata l’idea di utilizzarli come elemento simbolico all’interno della storia?
È ,uno di quegli elementi semplici e mondani che tornano nella vita con varie funzioni: abbellire una casa, un evento lieto, una ricorrenza ma anche un funerale, un ricordo, un regalo. Freschi, sbiaditi o di plastica. Si prestano a raccontare la quotidianità, la verità e la finzione, la gioia, la passione ma anche la caducità, la perdita, il lutto.
In In the Box le strategie di sopravvivenza dei personaggi diventano spesso autodistruttive. Cosa ti interessava esplorare di questo conflitto interiore?
La difficoltà di attraversare il dolore, qualcosa che evitiamo il più possibile, attuando incredibili strategie di mantenimento dello status quo che finiscono con l’essere autodistruttive – e che, per paradosso incrementano e prolungano il dolore.
Nel corto non c’è una vera “risoluzione”, ma un conforto inaspettato offerto da sconosciuti. Perché hai scelto questo tipo di finale e cosa volevi rappresentare?
Nei film è doveroso dare un finale soddisfacente agli spettatori, nella vita invece dopo il vissero tutti felici e contenti si va avanti. La principessa si deve struccare, il principe ha la gastrite e la macchina dal meccanico. Per me l’apertura finale dei protagonisti che si lasciano andare e che trovano un inaspettato breve conforto è allo stesso tempo una chiusura e un passo nel percorso. Poi c’è quell’ultimo sguardo a lato macchina del protagonista maschile, Lino Guanciale, che avverte che la vita va avanti.